Allergico alle archistar, è la prima vittima illustre del Coronavirus
Di Silvia Lambertucci MILANO 15 marzo 2020 18:01 NEWS
(ANSA) – ROMA, 15 MAR – “L’architettura oggi sembra non interessare più a nessuno”, ripeteva sconsolato negli ultimi anni Vittorio Gregotti, grande protagonista dell’architettura italiana del Novecento, decano dei progettisti di casa nostra, ma anche uno abituato da sempre ad andare oltre i confini nazionali, allievo di Nathan Rogers e amico fin dagli anni ’50 – quelli della sua laurea al Politecnico di Milano, lui figlio di un industriale tessile della provincia di Novara che lo avrebbe voluto in fabbrica – di tanti di quelli che hanno fatto la storia del pensiero e non solo di quello architettonico del nostro secolo.
Lucido come pochi anche nei suoi 92 anni carichi di vita, di impegni, di progetti realizzati, l’architetto Gregotti, che oggi piangiamo come la prima vittima illustre dell’epidemia da Coronavirus, era innanzitutto un figlio del suo tempo, della generazione che ha animato il dibattito culturale del secondo dopoguerra, quella che ha lavorato alla ricostruzione e creduto nella forza delle idee, nel rapporto con la storia, con le fondazioni, col territorio.
Un intellettuale a tutto tondo, appassionato di filosofia, di musica, di letteratura, di cinema, com’erano tanti professionisti di quegli anni, che vivevano anche la politica come una espressione naturale di questo dibattito e della voglia di partecipare, di indirizzare e costruire insieme alla società. E amico di tanti altri intellettuali, editori, giornalisti, scrittori, da Giulio Einaudi e Valentino Bompiani a Adriano Olivetti, Eugenio Montale, Vittorini, Rita Levi Montalcini, solo per citarne alcuni. Progettista fortunato e fecondo, prima di tutto, perché nei quasi 70 anni della sua carriera ha costruito tantissimo: in tanti oggi ricordano il controverso progetto per il quartiere Zen di Palermo (“La mia grande sfida persa”) e quello applauditissimo per il Teatro degli Arcimboldi a Milano, gli stadi di Genova e di Barcellona, il nuovo edificio universitario alla Bicocca di Milano, il quartiere residenziale di Shangai, i tanti piani urbanistici. Ma insieme con i collaboratori dei suoi studi ha firmato di tutto, dai ponti alle navi da Crociera (tra gli anni ’80 e ’90 una lunga collaborazione con Costa Crociere). E’ stato poi un formatore con il suo lavoro di professore, allo Iuav di Venezia e al politecnico di Milano. E non ultimo capace animatore del dibattito nazionale e internazionale, con gli scritti teorici (Il suo testo cult è forse Il territorio dell’Architettura, un saggio pubblicato nel 1966) gli articoli su quotidiani e periodici e soprattutto con Casabella, la storica rivista del settore che sotto la sua direzione ha vissuto gli anni più fecondi. Qualcosa però sembrava essersi rotto nel suo rapporto con la contemporaneità. “Il terreno che ho sempre pestato si sta disfacendo. E le mie capacità non riescono assolutamente a far fronte a questo disfacimento”, spiegava gentile in una delle ultime interviste, lo sguardo ficcante dei suoi occhi diventati stretti, l’eleganza british delle sue giacche di tweed. Tant’è, marcava le distanze e teneva il punto il vecchio Gregotti , anche quando nelle appassionanti lezioni – che ha tenuto fino a pochi anni fa – spiegava la sua idea di architettura, la lontananza dalle archistar, il rifiuto per la cosiddetta “architettura della meraviglia, quella tecnica e quella quantitativa”, imposta invece dalle logiche del capitalismo globale e dalle necessità commerciali del costruire, ma anche dalla vanità di una società sempre più schiava dell’immagine, della sfida “a chi fa il grattacielo più alto”.
Per lui non era così: “l’architettura così come io la concepisco è qualcosa in cui i materiali con cui si lavora non sono solamente il mattone, il cemento armato, sono anche i materiali che rappresentano una sintesi della propria memoria, dei propri desideri, una sintesi delle differenze che l’architettura sta proponendo rispetto al passato”. Proprio il rapporto tra il nuovo e l’esistente , che fu la sfida della sua generazione, è rimasto sempre uno dei cardini del suo pensare e del suo costruire, dove il nuovo, che pure “nasce da una ragionevole dialettica nei confronti del contesto” sostanzia la sua diversità “nei principi piuttosto che nella morfologia decorativa”. Principi, i suoi, che lo facevano particolarmente attento alle questioni della città e allargando lo sguardo – fu tra i primi in questo anche forse per il praticantato giovanile in Francia allo studio di Auguste Perret- al territorio, percepito come imprescindibile. “Un grande Maestro, profondo e autentico come sempre sono stati i grandi”, dice oggi, commosso, Renzo Piano, che di Gregotti è stato allievo, sodale, amico. Ma anche uno – è sempre Piano che parla – “che ci lascia una grande eredità in difesa della città e del suo territorio”. Un grande che nelle linee sempre pulite dei suoi edifici predicava la semplicità, quella più vera che nasce dalla complessità, “un’architettura poetica” diceva, “capace di diventare nobilmente semplice”.