da Askanews del 1 aprile2020
Milano, 1 apr. (askanews) – Ci sono tre aziende in Europa che producono caschi Cpap. Si chiamano Intersurgical, Dimar e Harol e hanno sede tutte in Italia. Del resto è nata qui negli anni 90 da un team di medici (fra cui luminari come Damia, Foti, Pesenti e Antonelli), l’intuizione di sviluppare caschi impiegati nei trattamenti iperbarici per subacquei, in dispositivi per aiutare i pazienti con difficoltà respiratorie.
Così come è di un italiano, il luminare Luciano Gattinoni, l’intuizione di trattare i pazienti di rianimazione con problemi polmonari in posizione prona, tecnica poi adottata con successo in tutto il mondo anche per i pazienti Covid-19.
I caschi C-Pap (Continuous Positive Airway Pressure) sono diventati un presidio fondamentale nella lotta contro il Coronavirus perché aiutano gli alveoli a funzionare e a ossigenare il sangue, “spingendo” nei polmoni ossigeno con una pressione positiva e regolabile.
A differenza delle maschere, i caschi generano un flusso e una pressione di ossigeno maggiore e non lasciano piaghe sulla faccia, soprattutto in un utilizzo prolungato. “I dati ci dicono che il casco è un’applicazione ottimale nella terapia C-Pap e molto efficace nel trattamento del Covid-19. Il 60% dei pazienti ricoverati da noi in sub intensiva supera la fase acuta con i caschi. Solo un 10-15% ha bisogno di essere sedato, intubato e portato in rianimazione, dove la mortalità a un mese è del 18/20%”, afferma Francesco Blasi Direttore di Pneumologia e Cardiologia (ad interim) al Policlinico e professore di Malattie dell’apparato respiratorio all’Università di Milano.
Negli ospedali lombardi si è capita subito l’importanza della terapia C-pap con i caschi e infatti i posti letto nelle terapie sub-intensive sono triplicati, se non addirittura quadruplicati dall’inizio dell’emergenza arrivando a quasi 3.500. “Noi abbiamo praticamente decuplicato i posti di terapia sub-intensiva dove tutti i pazienti indossano i caschi perché arrivano ipossici (in carenza di ossigeno ndr) e hanno bisogno del massimo ossigeno possibile. Al momento non abbiamo avuto problemi con le forniture di caschi, ne abbiamo ricevuti da tutte e tre le aziende che li producono, ma potrebbero diventare un problema”, afferma Blasi.
Al Policlinico oggi sono disponibili 310 posti di terapia intensiva e sub intensiva per pazienti Covid-19, mentre prima dell’emergenza i posti erano 22, tutti di terapia intensiva. Quanto ai timori sull’approvvigionamento di caschi, Blasi potrebbe avere ragione.
Ad oggi, infatti nonostante il divieto alle esportazioni, Intersurgical, Dimar e Harol fanno fatica a stare dietro agli ordini, che sono quintuplicati nell’ultimo mese. Solo Consip, su richiesta della Protezione Civile, ha ordinato 50mila caschi (metà della variante Niv) ma è riuscita a garantirsene solo 11mila con consegne scaglionate, mentre il bando per un secondo lotto da 44 mila è andato deserto.
Dal sito di Analisi distribuzione prodotti della Protezione Civile risulta che alla Regione Lombardia ne sono stati consegnati 950. Un pò meglio è andata all’Emilia Romagna che ne ha ricevuti 1.500, ma il record spetta al Piemonte con 2.500, mentre le altre Regioni sono ancora in attesa o ne hanno ricevuti poche decine (spiccano i 200 consegnati in Veneto).
Agli ordini della Consip, che al momento fa sapere di non avere in programma altri bandi per caschi C-Pap, si aggiungono quelli inoltrati da singoli ospedali, dalle direzioni regionali della Protezione Civile e dalle stesse Regioni. Ad esempio Regione Lombardia ne ha ordinati 9.841 per 1,24 milioni di euro attraverso Aria. “Siamo al 20% degli arrivi che sono scaglionati su più mensilità, ma sappiamo che un fornitore ha avuto dei problemi”, ha dichiarato l’assessore al Bilancio di Regione Lombardia, Davide Caparini.
L’azienda di cui parla Caparini è la Dimar, che è in difficoltà con la produzione perché un fornitore ha chiuso per Coronavirus. “Avevamo raggiunto un buon livello di produzione, quando la macchina si è rotta. Ci stiamo organizzando per ovviare al problema, ma ci vuole tempo per trovare fornitori alternativi che producono pezzi certificati. Intanto abbiamo potenziato la produzione di maschere (meno efficaci del casco nella terapia C-Pap ndr)“, ha dichiarato il fondatore e titolare, Maurizio Borsari.
La Dimar aveva incrementato la produzione per passare da 200 a 700 caschi al giorno. Borsari non ha voluto precisare quanti riesce a produrne oggi e in che tempi riuscirà a evadere gli ordini già acquisiti.
La Dimar è di Medollo in provincia di Modena e fa parte, come la Intersurgical, del distretto biomedicale di Mirandola (oltre 100 aziende, 5mila addetti, e quasi 2 miliardi di fatturato) ideato alla fine degli anni dal genio imprenditoriale e commerciale di Mario Veronesi, fra i primi, con l’allora StarMed (oggi Intersurgical), a produrre i caschi C-Pap. E dalla StarMed viene anche Borsari che l’ha fondata per poi uscire nel 2007, quando l’hanno rilevata gli inglesi di Intersurgical e dar vita alla Dimar. Anche Intersurgical per far fronte all’impennata della domanda dopo il primo caso di Covid-19 in Lombardia a fine febbraio, ha aumentato al massimo la produzione, impiegando tutto l’organico a disposizione su più turni e assumendo nuovo personale. “Siamo riusciti in un solo mese a quintuplicare la produzione. Spediamo incessantemente in tutta Italia, a volte anche consegnando col taxi. Da 50 dipendenti siamo passati a più di 80, produciamo h24 su 3 turni. Tutti i dipendenti sono coinvolti e motivati a dare il massimo”, ha dichiarato l’Ad, Stefano Bellarmi.
Intersurgical oggi è in grado di produrre quasi mille caschi al giorno e ne ha già consegnati circa 15mila. Il grosso delle consegne, circa 5mila pezzi, è previsto per inizio maggio. Prima dell’emergenza ne realizzava circa 35/40 mila l’anno, di cui il 30% destinato a paesi Europei. Il mercato dei caschi Cpap, infatti, è rimasto un mercato di nicchia e prevalentemente italiano ed è anche per questo che i nostri medici hanno sviluppato le competenze per utilizzarlo al meglio.
In Europa i sistemi C-pap invece sono conosciuti soprattutto come dispositivi per combattere l’apnea notturna e sono prodotti da diverse aziende, ma solo per utilizzo domestico.
Negli Stati Uniti i caschi per terapia C-Pap non sono stati mai approvati dalla Fda (Food and Drug Administration), e vengono ancora utilizzati solo per trattamenti iperbarici. Questo nonostante uno studio della Chicago University del 2016, rilanciato in questi giorni da alcuni medici negli Usa, ne certifichi la validità terapeutica per patologie respiratorie.
In Cina invece hanno preferito usare le maschere per affrontare l’emergenza Covid-19.
L’ultima ditta a produrre caschi C-Pap è la Harol di San Donato Milanese. Harold è più piccola delle altre due e oggi dopo aver potenziato al massimo la produzione è in grado di realizzare circa 300 caschi al giorno. “Con il casco è documentato che si raggiungono risultati positivi più velocemente rispetto alla maschera, perché il flusso e la pressione possono essere più elevati. Abbiamo acquistato un’altra macchina per aumentare la produzione, ma abbiamo dovuto chiudere gli ordini perché non riusciamo a stare dietro alla domanda. Ad oggi abbiamo consegnato 2.500/3.000 caschi in gran parte a Regione Lombardia”, ha dichiarato Maria Cristina Callegher, Ad dell’azienda fondata da suo papà Mario che contribuì allo sviluppo dei caschi C-pap, partendo dal modello dell’americana Sea Long, che lo produce ancora oggi, ma solo per l’utilizzo nelle camere iperbariche.