ROMA /CRONACA
Sommare i voti dei partiti, come se il candidato non contasse nulla, è un errore fatale. Non dominano le direttive di partito, ma il discernimento. Guardiamo ai candidati, guardiamoli, guardiamoli ancora. È lì la chiave.
di Antonio Preiti
Salta subito agli occhi quanto sia importante il voto di Roma. E non semplicemente perché si tratta della capitale della nazione, ma per almeno altre due ragioni. La prima è che il voto comunale a Roma ha spesso aperto cicli politici nazionali e sarebbe interessante capire quali potrebbe aprire questa volta. La seconda ragione è che il voto alle Comunali, e a Roma in particolare, non può essere trattato come fossimo ancora nella Prima Repubblica, quando i voti si spostavano come pacchi postali, come se fosse inutile votare, e invece fossero decisivi gli accordi tra i partiti. Non siamo più qui.
Quali sono le stagioni politiche che le Comunali di Roma hanno innescato? Cruciale è stata quella del 1993, quando Berlusconi, appoggiando al ballottaggio Fini contro Rutelli, ha creato di fatto lo schieramento di centro-destra, che avrebbe segnato la politica italiana per molti anni e ancora adesso. Le stesse elezioni hanno affermato Rutelli come leader politico nazionale. Lo stesso è avvenuto con Veltroni. E nelle elezioni comunali scorse la vittoria di Virginia Raggi ha anticipato di due anni il successo alle politiche del Movimento Cinquestelle. Roma è una fucina di potenziali leader e di nuove formule politiche. Siamo certi che non potrebbe esserlo anche questa volta? La seconda ragione (che, se ci pensiamo bene, è legata dalla prima, anzi ne è condizione) è il ruolo centrale che i candidati svolgono nella competizione.
È improbabile che una persona si chieda qual è lo schieramento politico migliore per governare la città, piuttosto si chiede qual è la persona migliore a cui affidarne le chiavi per cinque anni. Sommare i voti dei partiti, come se il candidato non contasse nulla è un errore fatale. Solo in circostanze eccezionali i voti al partito e al candidato coincidono. Vediamo le precedenti comunali a Roma: Virginia Raggi ha avuto il 35,3% al primo turno e il Movimento Cinque stelle il 35,2%, perciò perfetta coincidenza; ma Roberto Giachetti ha avuto il 24,9% contro il 17,2% del Pd e Giorgia Meloni il 20,6% contro il 12,3% di Fratelli d’Italia.
La smentita più clamorosa che i voti non si spostano come pacchi postali, l’abbiamo avuta a Bari due anni fa, quando lo stesso giorno, gli stessi elettori, diremmo con la stessa mano, hanno attributo il 66,7% dei voti al candidato del centro-sinistra Antonio Decaro, eleggendolo sindaco al primo turno, e alle Europee hanno dato agli stessi partiti «appena» il 28,0%. Nello stesso istante, le stesse persone hanno scelto in maniera disgiunta. Non dominano le direttive di partito, ma il discernimento.
Qual è allora il discernimento specifico di Roma? La sua capacità di influenzare il futuro, quella condizione concretissima (perché Roma va amministrata nei dettagli) e insieme anticipatoria e simbolica (perché Roma non è solo amministrazione), che porti «oltre i bastioni del presentimento» a riconoscere, come direbbe Rilke, che «il futuro entra in noi in questa maniera per trasformarsi in noi, molto prima che accada». Cosa sta accadendo a Roma? Quale futuro si sta determinando? Guardiamo ai candidati, guardiamoli, guardiamoli ancora. È lì la chiave.
15 maggio 2021 | 07:58