Pensioni con quota 103, stretta sul Reddito, taglio delle tasse: le nuove scelte del governo
del 25 ott 2021
di Federico Fubini
Il premier Mario Draghi con il ministro dell’Economia Daniele Franco
Più passano i giorni più diventa chiaro che una grande incognita della legge di Bilancio da varare questa settimana non riguarda le pensioni di oggi, né il Reddito di cittadinanza, né il taglio delle tasse. Riguarda, piuttosto, ciò che deciderà il sistema politico una volta completata la transizione in uscita da Quota 100 nei prossimi anni. La posta di questo passaggio è anche qui. Perché nessuna delle principali forze di maggioranza si sta esponendo per un ritorno al sistema com’era prima che nel 2019 il governo M5S-Lega creasse l’opzione fino al 2021 di ritirarsi prima con pieni diritti previdenziali a 62 anni di età e 38 di contributi. Tutti i partiti o quasi hanno lasciato soli il premier Mario Draghi e i suoi tecnici a progettare un ritorno del sistema pensionistico verso la sostenibilità finanziaria, l’equità fra generazioni e a un’economia in cui non manchi manodopera mentre entro il 2040 il Paese perderà quasi sei milioni di persone in età di lavoro per il declino demografico.
Questa è una delle spade di Damocle: la tentazione dell’intero spettro dei partiti di guardare di nuovo al consenso di breve termine, quando la transizione messa in cantiere in questi giorni finirà e sarà in carica un altro governo. Il tentativo di rendere meno probabile un’altra controriforma farà parte dei calcoli, in questi giorni. Così sarà anche per l’obiettivo di frenare l’espansione continua delle platee del Reddito di cittadinanza, tramite una stretta in entrata e più vincoli in uscita. Senza queste precauzioni, rischia di diventare difficile sostenere negli anni il taglio di sette miliardi delle tasse sui redditi personali che il governo vuole avviare da subito.
L’ANALISI Pensioni, così Quota 100 ha creato «meno occupati» e sta frenando la ripresa
di Federico Fubini
Nel 2021 il costo del sussidio dovrebbe salire a una cifra fra 8,5 e 9 miliardi di euro, perché il numero dei beneficiari ha continuato a salire malgrado il rimbalzo dell’economia e la creazione di oltre 500 mila posti. Le famiglie beneficiarie ad agosto sono state il 5,7% in più rispetto all’anno scorso: 1,67 milioni di nuclei che includono circa 3,8 milioni di persone (oltre un milione in più rispetto al 2019). L’analisi dei dati rivela che probabilmente le frodi sono frequenti.
Per prevenirle, la legge di bilancio dovrebbe stabilire più controlli ex ante per chi richiede il sussidio.
Diventerà obbligatorio allegare alla domanda un certificato di residenza recente e si dovrà firmare la “Dichiarazione di immediata disponibilità al lavoro” del richiedente e dei suoi familiari, prima ancora che la domanda venga presa in esame. È poi previsto un intervento sulla potenziale via di uscita dal sussidio che al momento appare, quantomeno, ostruita.
Oggi i beneficiari perdono l’assegno solo se rifiutano tre proposte di lavoro «congrue» da parte del loro centro per l’impiego, ma non accade quasi mai: di rado questi uffici pubblici non riescono ad arrivare alle tre proposte e intanto molti percettori arrotondano lavorando in nero. Di qui l’idea che chi beneficia del Reddito ne perderebbe una parte già al primo rifiuto di un’offerta di lavoro oppure, più probabilmente, a partire dal secondo rifiuto. Questi due interventi dovrebbero far risparmiare almeno 700 milioni rispetto all’aumento di 1,5 miliardi temuto nel costo del Reddito di cittadinanza l’anno prossimo.
Nel tentativo di tornare al diritto di pensione piena a 67 anni nei casi ordinari, Draghi e i suoi tecnici devono convincere soprattutto la Lega.
Eppure quasi nessuno degli altri partiti di maggioranza (con l’eccezione di Italia Viva) sta aiutando il premier. Intanto nelle vesti di negoziatore per la Lega è rispuntato Claudio Durigon, l’ex sottosegretario all’Economia dimessosi per aver proposto di intitolare un parco a Arnaldo Mussolini. Draghi e il ministro dell’Economia, Daniele Franco, volevano nel 2022 un passaggio a Quota 102 (per esempio, 64 anni di età e 38 di contributi), a Quota 104 nel 2023 e l’esclusione solo dei lavori realmente usuranti dal 2024 in poi. Questa proposta non passerebbe in Consiglio dei ministri, dunque sono allo studio due possibili alternative.
La prima prevede il ritorno alla normalità pensionistica di prima del governo giallo-verde dopo un biennio di Quota 102, ma magari con una particolarità: nel 2023 anno l’assegno sarebbe calcolato con metodo contributivo (cioè sulla base di quanto ciascuno ha effettivamente versato nel sistema). Ciò ridurrebbe i costi e affermerebbe il principio che non devono essere i giovani a pagare il debito futuro di chi sceglie di andare in pensione prima oggi.
GLI INTERVENTI Manovra e superbonus al 110%, la battaglia delle villette del ministro Franco
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La seconda e forse più probabile ipotesi prevede invece la spalmatura della transizione su un anno in più, con maggiore gradualità: si avrebbe Quota 102 nel 2022, Quota 103 nel 2023 e Quota 104 (in pensione a 66 anni) nel 2024. Il costo supplementare di questa spalmatura lenta sarebbe di 150 milioni di euro – rispetto ai 600 previsti prima – e ci sarebbe un vantaggio politico: non ci sarebbe uno sbalzo l’anno seguente in vista di un ritorno al ritiro a 67 anni, dunque le pressioni per una nuova controriforma sarebbero forse minori.
Del resto non c’è alternativa. Ogni spesa in più per pensioni o reddito di cittadinanza rischia di andare a intaccare la riserva per ridurre l’aliquota Irpef del 38%. E, a sette miliardi, il taglio è già al minimo indispensabile perché si avverta.