di Milena Gabanelli e Francesco Tortora
Internet? Non ti faccio vedere nulla, oppure controllo quello che puoi vedere, o addirittura creo una Rete parallela in modo che tu possa navigare solo lì. Nei Paesi democratici fortunatamente questo tipo di filtro non è applicabile, ma, come le inchieste di Dataroom continueranno a dimostrare e denunciare, troppo spesso i sistemi di controllo della Rete non riescono a contenere l’uso criminale del Dark Web: vendita di armi, droga, farmaci illegali, pedopornografia, furti di dati e pagamenti di riscatti in criptovaluta, ecc. Insomma il sistema Tor, che consente di navigare in incognito, trova ancora argini ridotti. Senza dimenticare che in nome della libertà di pensiero sul Web prolifera ogni genere di fake news e propaganda. Il paradosso è rappresentato dall’altra faccia della medaglia: i sistemi di controllo applicati dai regimi autoritari invece funzionano benissimo, ma vengono utilizzati per la repressione del dissenso. Vediamo quali sono i meccanismi che li governano e in che modo l’Occidente è complice.
Oscuramento del Web
Il primo governo a bloccare la Rete è quello di Mubarak in Egitto. Nel gennaio 2011, dopo le manifestazioni di protesta in piazza Tahrir, l’allora presidente ordina il blackout e il Paese rimane per cinque giorni quasi completamente disconnesso. La strategia fallisce, ma dimostra come senza Rete sia molto più facile reprimere il dissenso. Il blackout più lungo lo mette in pratica il Pakistan nel 2016 e dura 4 anni e mezzo. Per stare agli esempi più recenti, nel luglio 2021 il governo di Cuba oscura la Rete per 176 ore in risposta alle manifestazioni di protesta per la mancanza di cibo e per la gestione del Covid. Sempre nel 2021, la democratica India chiude Internet ben 85 volte nella regione ribelle del Kashmir, confermandosi per il quarto anno consecutivo il Paese con più blackout digitali (106 complessivamente solo quell’anno tra cui la disconnessione di New Delhi per sedare le proteste dei contadini). La giunta militare del Myanmar da febbraio 2021 torna ad amministrare con il pugno duro l’ex Birmania e ordina ben 15 interruzioni: la più lunga dura quasi 2 mesi e mezzo.
Access Now, associazione no profit che si batte per Internet aperto, documenta almeno 935 chiusure totali o parziali in più di 60 Paesi dal 2016. Se nel 2018 i Paesi che optano per il blackout sono 25, ora sono 34. Lo fanno scattare quando, a loro dire, sono in pericolo l’ordine pubblico e la sicurezza nazionale.
Filtraggio delle notizie
Per bloccare la Rete in intere regioni a Mosca c’è un centro di censura con uno staff di 70 persone guidato dall’ex ufficiale dei servizi segreti Sergey Khutortsev. Il sistema si basa su 30 server forniti dalla cinese Lenovo e altri 30 dall’americana Super Micro Computer Corp. Ma all’oscuramento del Web la Russia, insieme ad altri Paesi come Bielorussia, Iran, Egitto, Arabia Saudita, Siria, Turkmenistan, Thailandia e Turchia, preferisce sistemi di controllo più elaborati come la «Deep Packet Inspection» (Dpi): è la tecnica che filtra i dati in transito sulla Rete bloccando app e piattaforme sulla base di criteri prestabiliti, ma consentendo le altre attività.
Da marzo 2022 Mosca chiude i principali social network occidentali (Facebook, Instagram, WhatsApp, ecc.) e poco le importa se la decisione porta a perdite stimate per oltre 7,9 miliardi di dollari.
Ma la censura del Web inizia ben prima e risale al 2011 quando a Mosca sono organizzate attraverso i social media importanti proteste contro i risultati delle elezioni politiche del 4 dicembre.
Da lì in avanti è un’escalation. Nel 2019 viene approvata la legge per il cosiddetto «Internet sovrano» che impone ai fornitori di servizi Internet di installare software di filtraggio controllati dal governo: i fornitori sono obbligati a memorizzare i dati di tutti gli utenti per sei mesi e i metadati dei contenuti pubblicati per 3 anni.
Nello stesso anno, secondo i ricercatori di Censored Planet, Mosca identifica oltre 130 mila siti, principalmente di news e politica, da inserire nella lista nera e, dunque, da non far vedere.
Storia simile per l’Iran: a partire dal 2020, sono spesi 660 milioni di dollari per la creazione del «National Information Network», una sorta di Intranet «halal», con motori di ricerca, app di messaggistica e social media controllati dal governo. La maggior parte dei social media occidentali tra cui Facebook, Twitter, Telegram e YouTube viene bloccata, banditi almeno 5 milioni di siti Web stranieri. E adesso il Parlamento ultraconservatore sta per approvare una norma che mette al bando tutti i social network e browser con sede all’estero, anche se per ora Gmail, Google, Instagram e WhatsApp sono ancora in uso.
Rete parallela
In Russia la legge di «Internet sovrano» prevede anche la costruzione di infrastrutture digitali gestite dall’autorità statale di supervisione dei media, Roskomnadzor, che potrebbe sganciare la Rete domestica da quella globale e creare una Intranet nazionale chiamata «Runet».
Uno dei Paesi che di fatto già ha una Rete parallela è la Cina, che alla fine degli anni ’90 inizia a costruire il «Great Firewall», un sistema di censura capillare e costoso che consente al governo il completo controllo sui contenuti. Sia i tre principali fornitori di servizi Internet sia le infrastrutture dove passano i dati sono di proprietà dello Stato. Il traffico verso la maggior parte dei siti internazionali viene bloccato, mentre la popolazione tende a non usare app e social network occidentali perché il governo investe miliardi in aziende cinesi che forniscono gli stessi servizi: Sina Weibo è un ibrido fra Twitter e Facebook, WeChat è la versione cinese di WhatsApp e TikTok può sostituire Instagram. Proprio perché il traffico dati resta all’interno del territorio nazionale e nessuna società straniera fornisce servizi competitivi, la Cina potrebbe staccarsi dall’Internet globale senza grandi problemi.
La complicità indiretta dell’Occidente
Tutto ciò non sarebbe possibile senza l’aiuto della tecnologia occidentale. Aziende come Nokia, Sandvine, Cisco Systems, Allot, Silicom Ltd hanno venduto tecnologia a Putin nonostante fosse evidente che stesse creando un Grande Fratello 2.0. Ma le loro relazioni commerciali non si fermano a Mosca. La nordamericana Sandvine ha facilitato la violazione dei diritti umani in Paesi come Algeria, Afghanistan, Azerbaijan, Bielorussia, Emirati Arabi Uniti, Eritrea, Kuwait, Pakistan, Qatar, Siria, Sudan, Thailandia, Turchia e Uzbekistan.
In Giordania i suoi software hanno permesso di bloccare un sito Lgbtq, mentre in Egitto hanno garantito l’oscuramento di giornali indipendenti. I servizi di Allot sono stati usati per rallentare Telegram in Kazakistan e aiutare il regime a reprimere le proteste del gennaio 2022. Un report del 2021 dimostra come la società israeliana abbia fornito tecnologia DPI a ventuno Paesi per limitare i contenuti Web.
La battaglia per la libertà del XXI secolo si combatte anche su Internet.
L’Occidente però fa fatica a risolvere le contraddizioni della Rete: i sistemi di controllo da una parte non riescono a bloccare le fake news e la criminalità sul Dark Web, dall’altra sono diventati per i regimi autarchici l’arma più efficiente per reprimere il dissenso