da Agi.it – 16:49, 25 novembre 2019
di Paolo Fiore
La decisione della Transport for London è solo l’ultimo inciampo per Uber, tra problemi di sicurezza, cause e gestione dei dati
LONDRA
Londra boccia, di nuovo, Uber. La piattaforma per il noleggio di vetture con conducente potrà continuare a operare in attesa dell’esito del preannunciato ricorso, ma sul suo futuro di addensano diverse nubi, nonostante la nuova linea del ceo, Dara Khosrowshahi, più disponibile al dialogo. La decisione della Transport for London è solo l’ultimo inciampo per Uber, tra problemi di sicurezza, cause e gestione dei dati.
Perché Londra boccia Uber
Transport for London (Tfl), la società che gestisce le attività dei taxi e del trasporto privato nella capitale inglese, non ha rinnovato la licenza di Uber. La questione si trascina ormai da due anni. La prima sospensione è infatti arrivata alla fine del settembre 2017, a causa di “lacune” che “comportano potenziali rischi per la sicurezza”.
Dopo una serie di proroghe (l’ultima lo scorso settembre) ecco la nuova scadenza: 30 novembre 2019. Le motivazioni sono molto simili a quelle della prima bocciatura, anche se la Tfl riconosce gli sforzi fatti dalla compagnia: “Uber ha apportato una serie di cambiamenti positivi”, compreso un rapporto più “trasparente e produttivo” con le autorità. Tuttavia, non ci sono garanzie sufficienti che “i rischi per i passeggeri e per la loro sicurezza” “non si ripresentino in futuro”.
Sono stati individuati autisti che operavano “senza licenza”, capaci di aggirare i controlli nonostante fossero stati sospesi dall’app. Episodi definiti “preoccupanti” soprattutto perché “i sistemi di Uber sembra siano stati manipolati con relativa facilità”. Altri autisti viaggiavano senza assicurazione. Tfl ha quindi dedotto che Uber “non ha sistemi abbastanza solidi da proteggere i passeggeri”. “È inaccettabile – ha spiegato Helen Chapman, responsabile della gestione delle licenze – che Uber abbia consentito ai passeggeri di salire su vetture con conducenti potenzialmente non autorizzati e non assicurati”.
La prima bocciatura del 2017
I toni del comunicato con cui Londra annuncia lo stop alla licenza da fine novembre sono duri, ma comunque meno netti rispetto a quelli del 2017. Due anni fa, Tfl aveva criticato “l’approccio di Uber alla denuncia di gravi reati”, facendo cenno alle omissioni della compagnia. Tra le condotte che avevano reso la società “inadatta” a una licenza, Transport for London indicava anche “l’uso di Greyball”.
Si tratta di un software che sarebbe stato utilizzato per impedire alle autorità l’accesso ai dati reali dell’app e proteggersi da eventuali interventi normativi. Tom Elvidge, allora general manager di Uber a Londra poi passato a WeWork, aveva sostenuto che “un’indagine indipendente ha dimostrato che Greyball non è mai stato utilizzato o considerato come un’opzione nel Regno Unito”.
Anche se il software era stato attivato altrove. La bocciatura non metteva però in discussione solo aspetti puntuali ma, più in generale, la “responsabilità sociale dell’impresa”. Era infatti ancora fresca l’accusa di una ex ingegnere della società, Susan Fowler, che aveva denunciato abusi sessuali e un clima tossico. Da allora (febbraio 2017) Uber ha dovuto ammettere il problema e allontanare diversi manager accusati di molestie (o di averle coperte). Travis Kalanick, fondatore e ceo, ha abbandonato il suo ruolo, vendendo poi gran parte delle sue quote.
Il caso di Londra
Il caso di Londra è singolare perché non ruota attorno alla legittimità di Uber ma sul tema di sicurezza. Tfl non coinvolge infatti temi quali concorrenza con i taxi o status dei lavoratori. In sostanza, la società non è illegale (la sua attività è stata dichiarato legittima nel 2014) ma, appunto, “inadatta”. Un giudizio che, nel 2017, aveva trovato il pieno sostegno politico del sindaco di Londra Sadiq Khan. “Voglio che la città sia la frontiera delle nuove tecnologie e la casa di compagnie entusiasmanti”, aveva scritto in una nota. “Ma tutte le società che operano a Londra devono rispettare le regole”. “I servizi innovativi – continuava – non possono andare a scapito della sicurezza dei cittadini”.
L’indagine del 2018
Tra le azioni che, questa volta, hanno probabilmente convinto il Tfl a sottolineare i progressi di Uber c’è un’indagine interna del 2018. La società ha indagato su 2500 autisti londinesi per diversi tipi di abusi. Ne ha esclusi dall’app 451 e riportato alla polizia britannica 58 crimini. 1.148 driver sono stati indagati per infrazioni di “categoria A”, che includono anche abusi sessuali. Altri 1.402 sono stati invece indagati per “condotte inappropriate”, che comprendono anche commenti discriminatori. I numeri danno un’idea di quanto sia ampio il fenomeno.
Uber ha pero’ voluto pubblicarli sia per rendersi più collaborativo che per sottolineare come – nonostante cifre importanti – si trattasse di una minoranza: 2500 autisti erano, allora, il 6,3% dei circa 40.000 che operavano a Londra. Non e’ bastato per convincere il Tfl, che ha fatto cenno proprio ad autisti che lavoravano nonostante fossero stati esclusi dall’applicazione.
Lo status degli autisti
Con l’arrivo di Khosrowshahi, nel settembre, 2017, l’approccio di Uber – come riconosciuto da Londra – è cambiato, non solo in Inghilterra. Maggiore trasparenza, meno conflitti interni e comunicazione più accomodante rispetto al predecessore, sia nei confronti delle autorità che degli autisti. Ai collaboratori sono stati concessi diversi incentivi, come ad esempio assicurazioni agevolate, mance, applicazioni per gestire l’incasso maneggiando meno contante, funzioni per la localizzazione che dovrebbero garantire piu’ sicurezza. Una negoziazione continua, che però non tocca il punto nodale: lo status degli autisti. Per Uber sono collaboratori autonomi.
Il tema è ancora dibattuto. I driver hanno mosso alcune cause (tra le altre in Australia e Stati Uniti) per avere un contratto da dipendenti, con paga minima e ferie retribuite. Nel 2017, proprio due autisti londinesi, James Farrar e Yaseen Aslam, sono stati riconosciuti come dipendenti dalla corte britannica. Mentre Uber si quotava, lo scorso maggio, i conducenti hanno organizzato uno sciopero per avere paghe più sostanziose e più diritti.
In direzione contraria è andato il National Labour Relations Board (agenzia federale Usa che vigila sul rispetto delle normative sul lavoro): a maggio ha riconosciuto gli autisti come autonomi. Una nuova minaccia arriva però da casa propria: la California ha approvato una legge che inquadra i lavoratori della cosiddetta “gig economy” come dipendenti. E diversi candidati democratici alle presidenziali hanno già espresso la volontà di renderla una norma federale. Uber ha promesso l’ennesima battaglia legale.
Gli autisti sono “un rischio”
Ma perché lo status degli autisti e dei fattorini di Uber Eats è così importante? Il punto è che gli incentivi di Khosrowshahi e gli accordi in tribunale non peseranno mai quanto un nuovo tipo di contratto. Lo ha spiegato chiaramente la stessa società nei documenti inviati alla Sec prima dell’Ipo, indicando i driver tra i “fattori di rischio”: “La nostra attività – scrive Uber – sarebbe compromessa se i conducenti fossero classificati come dipendenti anziché come lavoratori indipendenti”.
Troppo alti i costi per una società che non ha mai registrato utili e non dovrebbe farlo prima del 2021. Pur di evitare un inquadramento più rigido Uber ha confermato – sempre all’autorità che controlla i mercati Usa – di aver raggiunto un accordo con la maggior parte dei 60.000 autisti statunitensi che hanno fatto causa alla società. Accordi costati tra i 146 e i 170 milioni di dollari. Spiccioli se confrontati con il peso dei nuovi, eventuali, contratti. Norme e sentenze, come quelle sugli autisti ma anche come quella di Londra che privano la società di un mercato importante, sono quindi un fattore di rischio. Tanto piu’ per una quotata. Dopo le notizie da Londra, il titolo ha ceduto il 4% nelle contrattazioni di pre-apertura.
La falla nascosta
Il nuovo corso di Khosrowshahi si è dovuto confrontare con problemi ereditati dal passato, ma anche con altri nuovi di zecca. Nel novembre 2017, Bloomberg ha rivelato che Uber era stata vittima – nell’ottobre 2016 – di un furto di informazioni riguardanti 57 milioni tra utenti e autisti. L’ex ceo Kalanick avrebbe anche pagato 100.000 dollari perché gli hacker non diffondessero la notizia. Khosrowshahi l’ha voluta rendere pubblica, ma lo avrebbe fatto – secondo il Wall Street Journal – due mesi dopo esserne venuto a conoscenza. Non solo: Uber avrebbe dato priorità ai potenziali investitori rispetto agli utenti. La società e il suo amministratore delegato avrebbero avvisato SoftBank (che allora stava trattando l’ingresso come socio di maggioranza) tre settimane prima delle vittime. Il caso si e’ chiuso con un accordo in tribunale da 148 milioni di dollari.
La causa di Waymo
Nel 2017, Uber è stata trascinata in tribunale anche da Waymo, la società specializzata in guida autonoma parente di Google. Secondo Mountain View, un ex dipendente – Anthony Levandowski – avrebbe rubato progetti riservati e li avrebbe poi trasferiti a Uber, che nel frattempo aveva rilevato la sua startup (Otto, che sviluppa tir autonomi). La questione si è risolta con un accordo nel febbraio 2018. Pur non ammettendo in pieno le responsabilità, Khosrowshahi ha preferito chiudere la questione – vista come uno spiacevole strascico del passato – offrendo a Waymo 245 milioni in azioni.
La sospensione di Jump
Una nuova incognita – questa volta tutta della nuova gestione – riguarda monopattini e bici elettriche condivise. Nell’aprile 2018, Uber ha acquisito Jump e ha subito allargato il servizio a nuove città, dagli Stati Uniti all’Europa. La speranza era quella di attingere a nuovi mercati più leggeri dal punto di vista normativo rispetto a quelli del trasporto con autista. Non sta andando come sperato.
Diverse città hanno bloccato o stanno discutendo il bando dei monopattini elettrici, soprattutto per questioni di sicurezza. E all’inizio di novembre, Los Angeles ha sospeso a Jump il permesso di operare perché Uber si è rifiutata di condividere con le autorità i dati richiesti.
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