Il 22 giugno del 2020 la corte Costituzionale (all’epoca presieduta dall’attuale guardasigilli Marta Cartabia) aveva concesso 12 mesi di tempo al legislatore per mettere mano alle norme che prevedono il carcere per i giornalisti. Dodici mesi dopo, però, la Consulta si riunirà nuovamente senza che il Parlamento abbia fatto nulla: si va dunque verso una scontata sentenza d’illegittimità costituzionale.
di F. Q. | 21 GIUGNO 2021
Avevano un anno di tempo per mettere mano a una legge che era evidentemente incostituzionale: quella che prevede il carcere per i giornalisti in caso di condanna per diffamazione a mezzo stampa. Dodici lunghi mesi, però, sono passati senza che il Parlamento si prendesse la responsabilità di fare quello per cui esiste: legiferare. E sarà dunque la Consulta a dovere nuovamente prendere in mano la questione. Nell’udienza pubblica del 22 giugno si va verso una scontata sentenza d’illegittimità costituzionale per l’articolo 13 della legge sulla Stampa del 1948 (quello che prevede da uno a sei anni di carcere per la diffamazione) e per l’articolo 595 del codice penale (da uno a tre anni).
D’altra parte già nell’ordinanza firmata dal giudice Francesco Viganò esattamente un anno fa si sosteneva come quelle norme che prevedevano la detenzione per i giornalisti non potessero coesistere con la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo. Un anno dopo non è cambiato niente. Anzi sì, qualcosa è cambiato: Marta Cartabia, presidente della Consulta che aveva dato un anno al Parlamento per intervenire, oggi di mestiere la ministra della Giustizia. Da via Arenula, secondo Repubblica, più volte la guardasigilli si è interessata alla vicenda non trovando però alcun ascolto in Senato, ramo del Parlamento chiamato a intervenire. Come già era stato con il caso di Marco Cappato sul fine vita nel 2019 e come rischia di succedere anche con l’ergastolo ostativo per i boss mafiosi che non collaborano nel 2022: i parlamentari non mettono mano alle leggi incostituzionali, nonostante le indicazioni e il tempo concesso dalla Consulta. Con quest’ultima che alla fine è costretta comunque a intervenire per spazzare via quelle illegittime.
“Avremmo preferito trattare il tema diffamazione in maniera organica, inserendo anche la questione delle querele temerarie, ma nonostante il monito della Corte costituzionale all’epoca presieduta dall’attuale ministra della Giustizia, si è registrato un nulla di fatto”, protestava qualche giorno fa Carlo Verna, presidente del Consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti che “attende che sia il giudice delle leggi a mettere le cose a posto”. Verna parteciperà all’udienza di martedì 22 giugno in videoconferenza accanto all’avvocato Giuseppe Vitiello, patrocinatore della posizione dei giornalisti italiani che confidano nella dichiarazione di incostituzionalità.
E dire che un anno fa la Consulta aveva suggerito al legislatore come intervenire sulla vicenda, indicando che le pene detentive potevano al massimo riguardare i casi in cui l’offesa alla reputazione “implichi una istigazione alla violenza ovvero convogli messaggi d’odio”. La questione di legittimità era stata sollevata dai Tribunali di Salerno e Bari: la Consulta ricordava che la libertà della stampa è “cruciale” ma sottolineava tuttavia che tecnologie e social aumentano i rischi per la reputazione delle vittime. Il bilanciamento espresso dall’attuale legge, a parere della Corte, è divenuto ormai “inadeguato” e richiede di essere rimeditato dal legislatore “anche alla luce della giurisprudenza della Cedu”, che “al di fuori di ipotesi eccezionali considera sproporzionata” l’applicazione di pene detentive nei confronti di giornalisti “che abbiano pur illegittimamente offeso la reputazione altrui”. Ciò anche in funzione dell’esigenza di “non dissuadere i media dall’esercitare la propria cruciale funzione di controllo sull’operato dei pubblici poteri”.
Il nuovo bilanciamento, proseguiva la Consulta, doveva “coniugare le esigenze di garanzia della libertà giornalistica” con le altrettanto “pressanti ragioni di tutela effettiva della reputazione individuale delle vittime di eventuali abusi di quella libertà da parte dei giornalisti”. Vittime, ragionavano i giudici, “che sono oggi esposte, dal canto loro, a rischi ancora maggiori che nel passato” per via degli “effetti di rapidissima e duratura amplificazione degli addebiti diffamatori determinata dai social networks e dai motori di ricerca in internet”. Ad avviso della Consulta, quindi, un così “delicato bilanciamento” spettava “primariamente” al legislatore, ritenuto il soggetto più idoneo a “disegnare un equilibrato sistema di tutela dei diritti in gioco, che contempli non solo il ricorso – nei limiti della proporzionalità rispetto alla gravità oggettiva e soggettiva dell’illecito – a sanzioni penali non detentive nonché a rimedi civilistici e in generale riparatori adeguati (come in primis l’obbligo di rettifica)”, ma anche a “efficaci misure di carattere disciplinare, rispondendo allo stesso interesse degli ordini giornalistici pretendere, da parte dei propri membri, il rigoroso rispetto degli standard etici che ne garantiscono l’autorevolezza e il prestigio, quali essenziali attori del sistema democratico”.In questo quadro, concludeva la Corte costituzionale nel dare un anno di tempo per cambiare la legge, il Parlamento “potrà eventualmente sanzionare con la pena detentiva le condotte che, tenuto conto del contesto nazionale, assumano connotati di eccezionale gravità dal punto di vista oggettivo e soggettivo, tra le quali si inscrivono segnatamente quelle in cui la diffamazione implichi una istigazione alla violenza ovvero convogli messaggi d’odio”. Insomma: la traccia per la nuova legge era tutta contenuta nella sentenza della Consulta. I parlamentari però l’hanno completamente ignorata. Come scomparsa completamente è pure illegittima.