L’intransigenza di Amsterdam su Mes e coronabond ha portato i paesi della sponda mediterranea dell’Ue a rinfacciare ai Paesi Bassi il disinvolto sistema tributario che ha consentito per anni alle multinazionali di evadere le tasse. Ecco come funzionava e come le ultime direttive europee stanno cercando di demolirlo.
di Francesco Russo OLANDA PARADISI-FISCALI JOOP-WIJN
da aggiornato alle 06:48 15 aprile 2020
Mark Rutte
Da sempre fedele alla linea del rigore tracciata da Berlino, durante l’ultimo Eurogruppo l’Olanda si è mostrata così intransigente da irritare persino la stessa Germania. Da Amsterdam non è arrivato solo uno scontato no ai titoli di debito comuni come strumento per alleviare l’impatto economico dell’epidemia di coronavirus ma anche una ferma, isolata opposizione all’alleggerimento delle condizioni per ottenere un prestito dal Mes. Un atteggiamento che ha provocato prima la reazione irata del premier portoghese Antonio Costa, che ha chiesto senza mezzi termini ai Paesi Bassi di chiarire se vogliono restare nell‘Eurozona o meno, e poi l’iniziativa del ministro degli Esteri italiano, Luigi Di Maio, che si è detto risoluto a voler porre il tema dei paradisi fiscali sul tavolo europeo.
Un tema politico
Il riferimento all’Olanda è piuttosto esplicito. I Paesi Bassi fanno infatti parte – insieme a Irlanda, Lussemburgo e Cipro – del novero di quei Paesi Ue che negli anni scorsi hanno attratto le multinazionali non solo grazie ad aliquote sugli utili molto favorevoli ma anche in virtù della possibilità di adottare stratagemmi, definiti con un eufemismo “ottimizzazione fiscale”, tali da abbattere a livelli minimi le somme effettivamente versate all’erario. Stratagemmi che hanno suscitato dure critiche di Ong come Oxfam e hanno in seguito prodotto una, pur tardiva, reazione delle autorità di Bruxelles, che con recenti direttive stanno spingendo queste nazioni a rientrare nei ranghi.
Che la mancata armonizzazione dei sistemi fiscali sia uno dei maggiori punti deboli dell’unione monetaria è cosa nota ma c’è un aspetto particolare che rende il tema fortemente politico, nonché legato in modo stretto alla battaglia per gli eurobond.
Amsterdam ha i conti in ordine anche perché ha assorbito entrate e investimenti ingenti grazie a una legislazione fin troppo disinvolta, a lungo tollerata da Bruxelles. C’è di più, il sistema fiscale olandese ha attirato multinazionali non solo extraeuropee ma anche comunitarie. Amsterdam ha così incamerato entrate che sarebbero spettate ad altre nazioni del blocco, magari vituperate cicale mediterranee.
Il sistema ‘check the box’
Come avviene per l’Irlanda, la maggior parte delle aziende che guardano ai Paesi Bassi per versare all’erario il meno possibile vengono però dagli Stati Uniti. Tutto inizia nel 1994, quando il fisco olandese introduce il cosiddetto sistema ‘check the box’, che consente alle compagnie americane di scegliere se registrare le loro operazioni locali come sussidiarie (ovvero partecipazioni in una società esterna che viene tassata a parte) o filiali (parti integranti della casa madre).
Avviando in Olanda una società a responsabilità limitata, soggetta al fisco Usa secondo la legge olandese e soggetta al fisco olandese secondo la legge Usa, un’azienda americana riusciva così a rendere invisibili le operazioni svolte tramite tali società attribuendole a filiali olandesi se occorreva nasconderle al fisco Usa e a sussidiarie Usa con filiale in Olanda se bisognava “ottimizzare” quanto dovuto all’erario di Amsterdam.
Questi sotterfugi diventarono col tempo così popolari da costringere Usa e Olanda a porre fine agli abusi con il trattato fiscale negoziato nel 2002. Ma non sarebbe dovuto passare molto tempo perché tutto ricominciasse come prima.
Joop Wijn e l’allora segretario al Tesoro Usa, John Snow, nel 2004
Il talento di mister Wijn
Nel maggio 2003 un ex dirigente della banca Abn Amro, Joop Wijn, diventa sottosegretario agli Affari Economici e avvia una fitta rete di contatti con legali, contabili e manager di grandi aziende per studiare una nuova normativa che consentisse alle compagnie americane di ricominciare a utilizzare l’Olanda come sponda per evadere le tasse.
Wijn però non si limita a tornare a offrire tutti i vantaggi del sistema ‘check the box’. Nel 2006 viene abolita anche la norma che impediva l’evasione sui bond ibridi, obbligazioni a metà tra il debito puro e l’azione i cui redditi possono essere quindi considerati, a seconda del sistema fiscale, interessi o dividendi. Nell’ipotesi di una compagnia con sede in Olanda che avesse sottoscritto un bond ibrido di una società straniera, ciò significava che quest’ultima poteva dedurre il pagamento dell’interesse mentre la società olandese poteva dichiararlo come utile da capitale, non tassabile secondo la legge di Amsterdam. In tal modo nessuna tassa veniva pagata sui bond ibridi, che diventarono presto un comodo espediente per spostare flussi di denaro senza intaccarli.
Grazie alle riforme di Wijn, riporta un’inchiesta della testata olandese De Correspondent, dal 2005 compagnie come Nike, General Electric, Caterpillar e Time Warner riescono a mettere al riparo in Olanda circa mezzo trilione di dollari. La Camera di Commercio Americana è tanto grata all’ex banchiere da assegnargli un Investment Award e da nominare il suo compagno, Patrick Mickelsen, nel board.
Il ‘panino olandese’
La presenza nell’Unione Europea di più Stati con un sistema fiscale spigliato lascia poi spazio a pratiche di “ottimizzazione” ancora più ardite, basate sullo spostamento di flussi di denaro da una nazione all’altra (e ritorno). Il più celebre era, fino a pochi anni fa, il ‘Dutch Sandwich with Double Irish’, ovvero “panino olandese con doppio irlandese”, una triangolazione che consentiva di spostare gli utili alle Bermuda o alle Cayman utilizzando come perno una società registrata come irlandese (e quindi considerata straniera dal fisco Usa) ma di fatto gestita e controllata da qualche paradiso fiscale insulare (e quindi straniera anche dal punto di vista di Dublino).
Il meccanismo si basava sull’esenzione fiscale che in quasi tutta la Ue godono i pagamenti di royalty tra una nazione e l’altra. Un flusso di denaro fatto apparire come tale passava così dall’Irlanda a una società olandese che a sua volta glielo rigirava depositandolo offshore grazie a una norma della legge tributaria olandese, ideata dal solito Wijn, che esentava dalle tasse anche i ‘royalty payments’ diretti verso i succitati paradisi fiscali, per i quali l’Olanda ha funto come una vera e propria ‘backdoor’ aperta nel cuore dell’Europa. Tempi che appaiono però ormai destinati a concludersi.
L’intervento (tardivo) dell’Europa
Come, sotto pressione di Bruxelles, l’Irlanda nel 2015 è stata costretta a riformare le norme che consentivano il ‘panino’, in Olanda è in vigore dallo scorso 1 gennaio la direttiva europea ADAT 2 contro l’evasione fiscale che estende le misure restrittive sui disallineamenti ibridi oltre i confini dell’Unione, smontando di fatto buona parte dell’architettura costruita da Wijn.
Non solo, dal prossimo luglio sarà effettivo il recepimento della direttiva del maggio 2018 che impone di comunicare tutte le operazioni transfrontaliere che consentono di evadere le tasse. Se è quindi verissimo che l’Olanda ha agito per 25 anni come un paradiso fiscale nel cuore dell’Unione, usare oggi questo argomento per attaccarla potrebbe rivelarsi, almeno in parte, un’arma spuntata. A meno di non volerle rivolgere lo stesso appello che l’ex cancelliere Gerard Schroeder ha rivolto alla sua Berlino: dopo aver preso, è il momento di restituire.