Foto Cecilia Fabiano/ LaPresse
Un anno fa, con il lockdown, le Caritas diocesane sono state travolte dalle richieste di aiuti alimentari. Poi nei centri di ascolto di Milano, Genova, Torino, Treviso, Roma, Napoli e Palermo sono arrivate persone che mai avrebbero pensato di non farcela da sole: la classe media che con la pandemia è finita gambe all’aria. E le necessità sono cambiate. Così è un nato un welfare parallelo a quello statale che comprende progetti di riqualificazione professionale, tirocini, finanziamento di piccoli progetti di lavoro autonomo.
di Chiara Brusini | 8 APRILE 2021
A Milano, Treviso, Napoli e Palermo le descrivono come ondate, arrivate in corrispondenza con quelle del virus. A Genova, Torino e Roma la risacca non l’hanno vista: l’aumento delle persone che chiedono aiuto è lento ma continuo, settimana dopo settimana. La costante è che nei 12 mesi del Covid le necessità di chi ha bussato ai centri di ascolto delle Caritas diocesane sono cambiate. “Ai tempi del primo lockdown la priorità era il cibo. Una richiesta enorme: arrivavano i lavoratori in nero che avevano dovuto fermarsi da un giorno all’altro, le famiglie che non potevano più contare sul pranzo della mensa scolastica”, ricorda Pierluigi Dovis, direttore dell’ufficio diocesano di Torino. “Ma ora l’urgenza è iniziare a pagare gli affitti arretrati per evitare lo sfratto quando sarà finito il blocco. Star dietro alle bollette. O potersi permettere una visita specialistica senza intaccare gli ultimi risparmi”. L’altro denominatore comune sono le facce nuove: da Nord a Sud, nelle sette città prese in esame dal fattoquotidiano.it i volontari hanno visto arrivare persone che mai avrebbero pensato di non farcela da sole. Piccoli esercenti, stagionali del turismo e della cultura ma anche professionisti a partita Iva. Organizzatori di eventi, fisioterapisti, tassisti, camerieri, parrucchieri: la classe media del terziario, travolta dall’emergenza. Insieme a loro tutti quelli che fino al marzo 2020 stavano a galla grazie ai lavoretti in nero. E poi le badanti rimaste senza assistito e senza casa, le famiglie di precari che con la morte del nonno hanno perso la pensione con cui riuscivano ad arrivare a fine mese, i collaboratori domestici fermati dal lockdown. Tante “nuove povertà” che l’organismo della Cei ha affrontato mettendo in piedi un vero e proprio welfare parallelo a quello statale fatto di ristori e ammortizzatori spesso insufficienti: oltre al sostegno economico ci sono i progetti di riqualificazione professionale e ricerca di nuove opportunità di lavoro attraverso la rete dei volontari, l’attivazione di tirocini o il finanziamento di piccoli progetti di lavoro autonomo.
Milano: “Prima i lavoratori in nero, poi i precari e le partite Iva” – “La prima scoperta è stata che a Milano c’era davvero tanta gente che tirava avanti lavorando in nero. Badanti, colf, parcheggiatori, idraulici con un piccolo giro di clienti… Quando hanno perso quel piccolo reddito sono stati i primi ad arrivare negli empori della solidarietà“. Ma questo è successo un anno fa, spiega Francesco Chiavarini, portavoce della Caritas ambrosiana. Tra marzo e dicembre 2020 la richiesta di aiuti è salita del 120% e gli empori e botteghe della solidarietà – dove ognuno sceglie quello di cui ha bisogno, un sistema più dignitoso rispetto al pacco alimentare – hanno distribuito cibo e indumenti a quasi 34mila persone. “Subito dopo abbiamo iniziato a vedere chi fino alla pandemia lavorava con contratti a termine nei settori più colpiti, come ristorazione e alberghi, e cassintegrati che avevano ricevuto così poco da non poter nemmeno fare la spesa. Poi le partita Iva e i professionisti, a cui i ristori magari li erano arrivati, ma non bastavano. Parliamo di famiglie per cui rivolgersi alla Caritas è stato un vero dramma”. Con l’arrivo di questa “seconda ondata” anche la strategia di intervento è cambiata: dal cibo ai contributi a fondo perduto per chi si è ritrovato senza reddito. Il fondo San Giuseppe, creato a inizio pandemia con il contributo del Comune di Milano e poi alimentato da donazioni – 4 milioni di euro, per il 66% da privati cittadini alcuni dei quali hanno versato in maniera continuativa quasi “autotassandosi” – ha aiutato 2.454 persone in tutta la regione. Per tre mesi hanno ricevuto dai 400 agli 800 euro mensili, a seconda della composizione della famiglia. I dati aggiornati a fine marzo 2021 mostrano però che in 800 hanno dovuto chiedere una o più proroghe. Per altre 995 famiglie che non avevano i requisiti per accedere è intervenuto il fondo diocesano di assistenza, che ha pagato bollette e affitti. In questo welfare parallelo non mancano nemmeno le politiche attive del lavoro: un fondo ad hoc finanzia tirocini in azienda per chi ha bisogno di ricollocarsi, cercando opportunità nei settori non toccati dalla crisi. E di recente è stato stretto un accordo con Inps: i volontari saranno formati in modo da poter dare informazioni anche sui sostegni pubblici a disposizione di chi si presenta ai centri.