da Il Messaggero.it di Venerdì 27 Marzo 2020
di Antonio Pollio Salimbeni
BRUXELLES – Non è stato uno scontro su tutta la linea, ma solo su una parte, tuttavia una parte molto importante, strategica, della risposta europea alla crisi del secolo. E così i 27 leader hanno discusso per ore per videoconferenza senza trovare una soluzione condivisa. Inevitabile l’accordo a rinviare le decisioni di un paio di settimane.
È stata una riunione difficile, a tratti molto dura. Con il premier Conte e lo spagnolo Sanchez che a un certo punto hanno respinto la bozza di conclusioni perché «deludente e insufficiente» e chiesto di ricominciare da capo, affidando ai presidenti di Commissione, Consiglio, Eurogruppo, Bce e Parlamento il compito di definire entro 10 giorni nuove proposte. «Dieci giorni per battere un colpo», ha detto Conte. Subito si è parlato di ultimatum, tuttavia la riunione si è prolungata. E alla fine è stato deciso di non decidere. Le divergenze sulla sostanza restano, a dimostrazione di quanto sia ancora lunga la strada per un salto di qualità nella politica europea.
Su una delle due questioni sul tavolo, le condizioni dei prestiti agli Stati da parte del Meccanismo europeo di stabilità, i 27 hanno chiesto all’Eurogruppo di presentare delle proposte entro due settimane. Si parla di proposte e non di aspetti tecnici, il che amplia lo spettro del negoziato tra i ministri che dovranno «tenere conto della natura senza precedenti dello shock Covid-19 che colpisce tutti i Paesi». E le proposte «saranno rafforzate, se necessario, con ulteriori azioni in modo inclusivo, alla luce degli sviluppi, al fine di fornire una risposta globale». Il fraseggio è tortuoso. Poi la exit strategy, come tornare alla normalità una volta superata la crisi sanitaria. La strategia deve essere coordinata, occorre «un piano di ripresa complessivo e investimenti senza precedenti».
LE QUESTIONI
La divisione dei due campi resta. La questione del Mes è importante per calmare i mercati che a un certo punto potrebbero reagire male contro qualche Stato esposto per l’aumento del debito: chi ce l’ha già molto alto, come l’Italia, rischia grosso. Il Mes prevede una condizionalità stretta, anche se in questo caso un po’ meno. Inaccettabile usare le stesse procedure della crisi del debito sovrano (tipo Grecia), dicono Conte e Sanchez. Macron è d’accordo. Poi il coronabond, l’emissione di una obbligazione comune da parte di una istituzione Ue (probabilmente la Banca europea degli investimenti) che scarichi la pressione sui bilanci nazionali e dia il messaggio anche simbolico che la tenuta della Ue è su tutti i lati della crisi: sanitario, economico e finanziario. Adesso e dopo. Anche qui la divergenza è profonda, anche psico-culturale non solo politica.
La lettera con la quale i leader di Italia, Francia, Belgio, Spagna, Portogallo, Slovenia, Grecia, Lussemburgo e Irlanda hanno messo sul tavolo l’idea di coronabond ha scompaginato i programmi. Troppo presto era stata derubricata a «contributo normale» da Olanda, Austria e Finlandia. Respinta in radice anche da Berlino. Ha detto Merkel: al coronabond «noi preferiamo il Mes che è stato fatto per le crisi e offre abbastanza possibilità». Emettere un titolo comune significa condividere pienamente i rischi finanziari, ma la fiducia reciproca è tuttora merce rara. Non c’è un problema italiano, ha indicato il premier Conte: «Nessuno pensa a una mutualizzazione del debito e comunque l’Italia ha le carte in regola: il 2019 si è chiuso con il deficit/Pil all’1,6% anziché 2,2% come programmato». Però «si deve reagire con strumenti finanziari innovativi e adeguati, c’è uno shock imprevedibile e simmetrico di portata epocale», non vanno usati «strumenti costruiti per fronteggiare tensioni finanziarie riguardanti singoli paesi». E la conclusione: «Se qualcuno dovesse pensare a meccanismi di protezione per un singolo paese elaborati in passato allora voglio dirlo chiaro: non disturbatevi, ve lo potete tenere, perché l’Italia non ne ha bisogno».
Coronavirus, ora Palazzo Chigi punta sui Covid-Bond della Bei
ROMA Altre due settimane per convincere i paesi del Nord Europa che alternative ai Covid-bond non ce ne sono o magari per spiegare al M5S che il Fondo salva stati è l’unica scialuppa che offre in questo momento l’Europa. Resta il fatto che la riunione del Consiglio europeo in videoconferenza finisce con un rinvio. Conclusione attesa, ma non meno preoccupante visto che, come ha sottolineato anche Mario Draghi, serve «velocità per prevenire che una recessione si trasformi in una prolungata depressione». Ed invece i Ventisette si prendono altre due settimane, e non i dieci giorni proposti da Italia e la Spagna che avviano il meeting rifiutando il documento preparato dagli sherpa. Alla fine se ne mette insieme un altro depurato dal riferimento al Fondo salva stati, che non indica una soluzione ma impegna i Ventisette ad elaborare proposte nuove su un’azione comune coordinata di bilancio.
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IL MANDATO
D’altra parte il Fondo salva stati così com’è, e ammesso che non preveda condizionalità, non basta. Chiuso nella sua stanza di palazzo Chigi, Conte partecipa al vertice in videoconferenza con Bruxelles in stretto contatto con il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri.
La riunione comincia con Roma, Madrid e Parigi che rifiutano il documento finale perchè privo di qualunque riferimento ad iniziative comuni. Conte e Sanchez propongono di aggiornare la riunione dando mandato ai cinque presidenti delle istituzioni Ue di formulare nuove proposte.
Alla fine si decide di affidare il compito all’eurogruppo. Ma se le posizioni restano distanti all’interno del Consiglio, nei palazzi di Bruxelles emerge con sempre maggiore forza – anche per le parole di Mario Draghi – una linea favorevole a lanciare sul mercato titoli di debito pubblico europeo che toccherebbe alla Banca Europea di Investimenti (Bei) – adeguatamente capitalizzata – emettere. I segnali che alla fine si debba per forza andare in quella direzione non mancano anche se i falchi del nord Europa tengono alto il muro. Con una decisione senza precedenti ieri la Bce ha messo nero su bianco, nella Gazzetta ufficiale europea, la partenza del nuovo Pepp’ (Pandemic Emergency Purchases Programme) da 750 miliardi di euro, che di fatto sostituisce e amplia il quantitative easing di Draghi.
«L’aggregazione dei portafogli del programma Pspp non si applicherà al Pepp», si legge nella Gazzetta. Come dire che la risposta messa in piedi dalla Lagarde è «senza limiti» e che la Bce potrà acquistare debito dei paesi della zona euro al di sopra della soglia del 33%. Per Italia, Francia, Spagna, Belgio, Lussemburgo, Grecia, Irlanda, Portogallo e Slovenia – che ieri l’altro hanno sottoscritto un documento in favore dell’emissione di bond – si tratta di un passo avanti, ma non sufficiente a proteggere le rispettive economie e a salvare la zona euro. Conte, spalleggiato dallo spagnolo Sanchez e dal francese Macron, ha ieri battuto i pugni sul tavolo della scrivania di palazzo Chigi e ha proposta dieci giorni di riflessione, nella convinzione che a Germania e Olanda, e al fronte dell’est-sovranista, occorra ancora tempo per comprendere la gravità della situazione e le conseguenze di un lockdown che si allarga a macchia d’olio in tutto il Vecchio Continente.
IL GIRO
L’anello decisivo è ovviamente la Germania. La presidente tedesca della Commissione Ursula von der Leyen, ex ministro di di Angela Merkel, interrogata sulla questione non ha chiuso mentre la Cancelliera se l’è cavata con un «noi preferiamo il Mes». lo spettro di una crisi peggiore del 2008 è in grado di tramutare in carne e ossa anche i fantasmi del ministro dell’Economia tedesco Altmeier. Così come ha spinto la presidente della Bce Christine Lagarde a cambiare linea nel giro di una settimana. Sotto pressione rischiano di finire anni di integrazione mentre riemergono diffidenze tra Nord e Sud su come vengono gestite le finanze pubbliche. Conte difendendo ieri pomeriggio la sostenibilità del debito pubblico ha orgogliosamente sostenuto che «se si pensa di usare gli strumenti del passato», non disturbatevi, ve lo potete tenere, perché l’Italia non ne ha bisogno, facciamo da soli». Un’affermazione dal vago sapore patriottico, ma che contiene di fatto anche una sfida all’intera zona euro che subirebbe – Germania in testa – conseguenze non irrilevanti da un eventuale abbandono dell’Italia.
La crisi costringe ogni leader a fare i conti anche con i propri elettori. E se Conte ha nel sovranismo grillino e leghista il più grande ostacolo all’utilizzo del fondo salva stati, la Merkel deve fare i conti alle elezioni di ottobre con la destra di Afd. «La storia è anche la somma delle cose che avrebbero potuto essere evitate», ha ricordato ieri la von der Leyen citando Adenaur, padre fondatore di un‘Europa che rischia di implodere in attesa che la Cancelliera esca dalla sua quarantena e magar pronunci come nel 2015 – quando decise di accogliere contro tutti un milione di profughi siriani – un nuovo «wir schaffen das» («ce la possiamo fare»).
Ultimo aggiornamento: 11:43