La dottoressa in servizio al pronto soccorso della struttura sanitaria milanese: «Siamo inondati, la situazione è grave. Niente sarà mai più come prima». «Temo che le misure di contenimento che sono state appena varate non basteranno a fermare il male»
da del 9 novembre 2020 | 07:24
di Carlo Verdelli
Non so che viso abbia, bardata com’è da una cuffia fucsia sui capelli e una mascherina ampia sul viso. Spuntano giusto gli occhi, scuri e già stanchi di mattino. Il resto del corpo è nascosto da un camicione blu di taglia abbondante, forse per muoversi con più agio nel via vai del Pronto Soccorso dell’ospedale Sacco dove ormai praticamente abita.
«Siamo inondati. È precipitato tutto il 12 ottobre, ricordo il giorno, un lunedì. I segnali che poteva ricominciare già c’erano. Quando hanno riaperto le discoteche in estate, qui abbiamo pensato: oh no! Mai creduto che il virus se ne fosse andato per sempre, ma non ci si aspettava una botta del genere. Invece, quel 12 ottobre, di colpo, siamo stati presi d’assalto da un centinaio di ambulanze, più uomini e donne con sintomi che si presentavano da soli. Da allora è stata una maxi emergenza quotidiana. Nel giro di due settimane, abbiamo ricoverato più polmoniti da Covid che in tutto marzo e aprile. Una cinquantina al giorno. In due settimane, il bollettino di due mesi».
Previsioni, dottoressa Brambilla? Scuote la testa e l’abbassa. «Non siamo ancora all’apice. Rispetto alla prima ondata, il virus circola molto di più sul territorio, almeno qui. Ormai siamo a 300 letti su 400, quasi saturate le nostre possibilità. E il vero problema è che la mia città, Milano, sembra non rendersi conto dell’incendio che la minaccia».
Milano brucia ma affolla i parchi nel weekend, passeggia per le strade, va a lavorare quasi come se niente fosse. Il suo avamposto più scorticato dal virus è proprio l’ospedale Sacco, estrema periferia nord ovest, un vasto complesso di cura e dolore che ha sperimentato, quarant’anni fa, le prime unghiate dall’Aids e che adesso resiste a fatica al nuovo assalto di una malattia che sta soffocando una città, una nazione, l’Europa e praticamente il mondo intero (mezzo milione di nuovi contagiati in 24 ore). Il portone d’ingresso a questa ridotta, flagellata da una tempesta che non ha precedenti, è il Pronto Soccorso dove abita e comanda la dottoressa con il camicione blu, Anna Maria Brambilla, 53 anni, primaria della primissima linea del Sacco, nato come sanatorio nel 1927 e diventato, nell’anno di disgrazia 2020, il bastione anti Covid della metropoli che è ormai l’epicentro del secondo e aggressivo assalto.
Bergamo, la primavera scorsa. Milano, adesso. Intorno c’è una regione, la Lombardia, che da sola conta quasi la metà dei «positivi» (243 mila su 500 mila) e altrettanto dei morti (18 mila contro 41 mila) da quando, 21 febbraio, l’Italia è finita sotto virus.
Perché proprio qui, dottoressa Brambilla? «Non saprei. Forse c’entra qualcosa anche la qualità dell’aria, il concentrato di aziende e industrie. D’altronde tutto è cominciato a Wuhan, una delle zone più inquinate della Cina. Comunque, quello che ci ha salvato sei mesi fa è stato la chiusura totale. Adesso si vede ancora troppa gente in giro. Troppa».
Il ministro della Salute, Roberto Speranza, ha detto che se non si riesce a piegare la curva, il personale sanitario non reggerà. Lei quanto lavora?
«Dalle 8 alle 21, quasi uguale anche i festivi. Fortuna che mio marito fa lo stesso mestiere, non abbiamo figli, viviamo lo stesso carico emotivo. Comunque, condivido l’allarme del ministro. A parte la stanchezza di oggi che va a sommarsi a quella non smaltita della volta precedente, a parte i colleghi che hanno perso la vita e a quelli che si infettano, c’è un cambio di atteggiamento collettivo che rende più gravoso il lavoro di noi tutti. Siamo passati dall’essere considerati eroi, che per carità era una esagerazione, a essere vissuti con ostilità, come se fossimo noi, medici e infermieri, i responsabili di quello che sta accadendo».
C’è un lungo murale in vostro onore, realizzato dall’associazione Baluardo a Quarto Oggiaro, il quartiere intorno al Sacco, che una settimana fa è stato imbrattato, le mascherine sfigurate, i vostri occhi cancellati. Perché, secondo lei?
«Si spiega soltanto con il vento che si è alzato, già a inizio estate, per scacciare il fantasma del Coronavirus. Se cancello te, che ti occupi di quella malattia, cancello la malattia stessa. Si cerca sempre un colpevole, stavolta saremmo noi. Ed è sconvolgente».
Le capita di piangere?
«Una volta, durante un’intervista in tv, poco tempo fa. Mandavano in onda un filmato dove facevano vedere questo ospedale con i corridoi e le stanze vuote. Era un falso clamoroso. Ma come? Abbiamo la coda delle ambulanze, pazienti sui lettini che aspettano una sistemazione, altri già con il casco di ventilazione ma ancora nei corridoi. Ecco, mi sono venute le lacrime perché l’ho vissuta come una mancanza disumana di rispetto verso chi è colpito da una malattia tremenda, che sconvolge i parametri della medicina. La prendi, sei asintomatico, non fatichi a respirare, poi di colpo la saturazione di ossigeno precipita sotto gli 80 e a quel punto il dramma diventa doppio: comincia la lotta con la morte e in più sei solo a doverla affrontare, perché nessuno può starti vicino per via del contagio, nemmeno alla fine, quando ti seppelliscono. C’è qualcosa di diabolico in questo virus».
Crede in Dio?
«Sì, io credo. Ma non penso certo a un flagello mandato dal cielo. Dio non punisce. Vedo piuttosto un’aggressione al genere umano, la presenza forte del male contro il bene della vita».
Il Male. Lo ha evocato anche il cardinale Zuppi in un’intervista all’inserto «Buone Notizie» di questo giornale.
«Questo virus crea un’enorme confusione, sta trasformando il nostro pianeta in una specie di gigantesca Torre di Babele. Gente che non crede che esista, gente che pensa che non verrà sfiorata, gente che evoca complotti di profittatori internazionali. L’unica cosa sicura è che niente tornerà come prima anche quando l’avremo sconfitto, quando avremo vinto questa specie di guerra mondiale. Perché lo è davvero, una guerra, e da dove combatto io lo si vede con chiarezza, anche se molti continuano a non voler vedere».
Quando si arriverà, se non alla pace, almeno a una tregua?
«Il numero dei contagi, e anche quello dei decessi, continua a crescere in modo preoccupante. In più arriva la stagione fredda, le influenze, avremo ancora dei mesi complicati davanti. Forse potremmo esserne fuori verso marzo o aprile. Ma soltanto se faremo le cose giuste e diremo le verità che vanno dette».
Lei che cosa farebbe, che cosa direbbe?
«Lavoro in un pronto soccorso dove ci sono stati dieci morti negli ultimi venti giorni. È una percentuale molto alta per noi. Persone entrate in condizioni medie, che rapidamente sono tracollate lì, neanche il tempo di indirizzarle ai vari reparti. Temo che le misure di contenimento che sono state appena varate non basteranno a fermare il male».
Non è facile fermarlo.
«Capisco il problema dell’economia, ma la situazione è davvero disperata. La gente deve sapere. Milano deve sapere e capire. Al momento, l’unica vera arma contro questo virus è proprio riconoscerlo per quello che è: un nemico malefico, che ti prende alla sprovvista, che sbriciola le difese umanitarie. Un nemico mortale».
9 novembre 2020 (modifica il 9 novembre 2020 | 07:24)