Due diligence, separazione del perimetro, cessione degli sportelli, interventi di Mcc e di Amco e aumento di capitale. Ecco le possibili tappe della privatizzazione dopo l’apertura di Unicredit | Mps, pronta l’offerta del Mef.
da del 30/07/2021 12:50
di Luca Gualtieri
L’annuncio fatto ieri sera da Unicredit apre un periodo decisivo per il futuro del Montepaschi e indirettamente per le geografie del sistema bancario italiano. Nella sua apertura alla proposta del Tesoro (anticipata mercoledì 28 da MF-Milano Finanza) il ceo Andrea Orcel è stato molto chiaro nel delineare le condizioni dell’istituto: pulizia del target da rischi legali e di credito, effetto accrescitivo sull’utile per azione e soprattutto neutralità del deal sul capitale (conseguibile anche grazie agli oltre due miliardi di bonus fiscale legato alle dta).
Ma quali saranno le prossime mosse della delicata trattativa tra il Gruppo e il Governo, che oggi detiene il 64% del Monte ? Secondo quanto appreso da Milanofinanza.it, dal perimetro che sarà definito a settembre dovrebbero uscire 6,2 miliardi di contenzioso legale, 2-2,5 miliardi di crediti deteriorati e forse anche i crediti in bonis ad alto rischio (ossia una parte del portafoglio cosiddetto stage 2). Per quest’ultima categoria di attivi è anche possibile una soluzione diversa, simile a quella messa a punto per Intesa Sanpaolo durante il salvataggio delle Banche venete: lo Stato potrebbe concedere a Unicredit un’opzione put con un tetto e un arco temporale predefiniti per rispedire indietro i portafogli dalla qualità dubbia. La soluzione è comunque ancora allo studio, ma l‘importo potrebbe avvicinarsi a 1,5-2 miliardi. Tutti gli asset scartati confluirebbero in una bad company che provvederebbe poi a liquidarli nel tempo. Amco si farebbe invece carico degli NPE, come accaduto in buona parte degli ultimi salvataggi bancari.
Dal perimetro destinato a Unicredit non dovrebbe invece uscire la rete commerciale del Monte sulla quale però il compratore potrebbe mettere mano dopo il trasferimento. Parte del network potrebbe infatti essere ceduto a terze parti o per ottemperare alle richieste dell’Antitrust o per rispondere a esigenze di natura strategica. Secondo le prime stime il gruppo potrebbe mettere sul mercato circa 150 sportelli, collocati principalmente nelle Regioni del Sud (per lo più Sicilia e Puglia). Se la scelta fosse confermata, l’acquirente naturale sarebbe il Mediocredito Centrale che lo scorso anno, con l’acquisto della Popolare di Bari, ha posto le basi di un gruppo creditizio radicato nel Mezzogiorno. Sempre secondo ipotesi allo studio il trasferimento potrebbe riguardare anche parte del personale delle Direzioni Centrali (che oggi occupano circa 4.900 risorse a livello complessivo), anche se per il momento non circolano numeri o progetti concreti in merito. Se su tutti questi delicati aspetti verrà raggiunto un accordo (soggetto comunque alle autorizzazioni di Bce-Bankitalia, Ivass, Consob e Antitrust), l’operazione sarà sottoposta alle rispettive Assemblee di Unicredit e Mps nel corso dell’autunno per arrivare al closing per fine anno.
Ieri peraltro Unicredit, pur nella sua cautela, ha delineato anche le potenzialità industriali del progetto.
L’operazione, spiegava infatti la nota della Banca, permetterebbe infatti a piazza Gae Aulenti di accelerare i piani di crescita organica e agevolare il raggiungimento di ritorni sostenibili superiori al costo del capitale. Mps potrebbe contribuire, subordinatamente alla definizione del perimetro dell’operazione, circa 3,9 milioni di clienti, 80 miliardi di crediti alla clientela, 87 miliardi di depositi della clientela, 62 miliardi di masse in gestione e 42 miliardi di masse in amministrazione.
L’operazione permetterebbe al Gruppo di rafforzare il posizionamento competitivo in Italia e in particolare nel Centro-Nord, dove si trova il 77% degli sportelli di Mps, contribuendo fra l’altro a una crescita della quota di mercato in Toscana di 17 punti percentuali, in Lombardia e in Emilia Romagna di 4 punti percentuali e in Veneto di 8 punti percentuali. «Tale operazione», spiega inoltre la nota, «porterebbe inoltre un incremento rilevante della profittabilità prospettica, preservando al contempo la posizione di capitale e migliorando la qualità dell’attivo e il profilo di rischio del gruppo su base pro forma. Qualsiasi potenziale operazione avverrebbe nell’ambito dell’esistente focalizzazione da parte del gruppo su liberazione del valore interno che rimane e rimarrà una priorità».
Sempre in base alle ipotesi che circolano tra le controparti coinvolte sul deal, l’ultima tappa a quel punto dovrebbe essere la ricapitalizzazione dell’istituto senese: agli attuali azionisti verrebbero richieste nuove risorse per un importo stimato tra 2 e 2,5 miliardi attraverso un’operazione a mercato che non dovrebbe incontrare particolari problemi. Se questa è la road map che circola in Via XX Settembre e nelle Banche d’affari, occorre ricordare che le incognite sono ancora molte e che il diavolo sta nei dettagli. Di certo però da ieri seduto al tavolo c’è un interlocutore disposto a lavorare sulla privatizzazione del Monte. Una notizia accolta molto positivamente dal Governo e dal Mercato.