CRONACHE / PERSONAGGI ITALIA
Il finanziere, classe 1937: non avevo nemmeno un ufficio ma sconfissi Sindona. Agnelli mi definì diabolico……..
di Daniele Manca
Il finanziere Francesco Micheli (secondo da destra) con Claudio Magris, Fabiola Gianotti e Giannola Nonino
«Poteri forti in Italia? Ne vedo ben pochi. Eh sì che ne ho incontrati tanti in passato. Ma oggi, cosa si intende per poteri forti?».
Ce lo dica lei.
«Nella seconda metà del secolo scorso c’erano ancora i padroni del vapore, simili ai tycoon americani di frontiera a cavallo del ‘900. Oggi il mondo è del tutto cambiato. La ragione di tutti i guai odierni sta soprattutto nella crisi di classe dirigente degli ultimi decenni — Alitalia, Ilva, Mps, Anas e così via —. Inventarne una più efficiente richiede tempi generazionali. La mediocrità strisciante riduce anche la credibilità di tante Istituzioni, dalla Magistratura ferita dalle contraddizioni interne a Università lontane dai vertici internazionali: possibile che non ci sia un Premio Nobel dell’economia italiano?».
Classe 1937, ma non si direbbe. Tenti di rallentare il fiume di parole ma ci riesci poco. Il passato si intreccia con il presente del Paese. Ed è lì che spunta un pizzico, forse qualcosa di più, di amarezza. Un’Italia che è alla continua ricerca del proprio essere, tra passioni politiche estreme e incapacità di trovare un posto nel mondo che non sia quello di regalare piaceri e stili di vita. Il finanziere «privo di scrupoli» che non ha dimenticato le sue origini, come si sarebbe detto ai tempi delle lotte operaie negli anni Settanta, sembra voler dire che è l’Italia ad aver un problema con il proprio passato.
E si può diventare anche ricchi come nel suo caso.
«Sì, si può diventarlo. Ma poi è facile perdere la testa di fronte alle lusinghe del dio danaro. Ai tempi del liceo classico venivo di notte qui a fianco (affacciati sul Castello e il Parco Sempione ndr), a fare lo scrutatore del Totip, lavoro a cottimo, per guadagnare qualche lira. Ho fatto anche la comparsa alla Scala. In casa non mi mancava niente, ma allora come tutti quelli della mia generazione avevamo il sacro fuoco di darci da fare, ed essere indipendenti dalla famiglia».
Ma la Shenandoah, il trialbero a vela da 54 metri con uno Steinway a coda nella libreria esiste.…….
«A mezza coda, e se per questo anche nella barca precedente, un ketch di 30 metri, avevo un piccolo Yamaha che faceva miracoli grazie ad Angelo Fabbrini, il più grande preparatore e accordatore, quello di Michelangeli e di Pollini. Resistette a ogni intemperie, dall’Antartide alla Polinesia, all’Alaska. Sono piaceri. Passioni. Divertimento. Se si ha il gusto di divertirsi è molto più facile realizzare operazioni imprenditoriali positive, come ho fatto inventando tante nuove iniziative, quelle che oggi vengono chiamate start up».
Iniziata però con uno dei signori della Borsa, Ravelli…
«Di sconti non ne faceva. Era riuscito a sopravvivere nel campo di concentramento di Mauthausen promettendo una montagna di soldi a un kapò per salvarsi e salvare i suoi amici ebrei diventati poi grandi clienti. Pensi che l’ho conosciuto quel kapò negli anni ‘60 quando veniva due volte all’anno nell’ufficio di via Dogana, a prendere la paghetta».
Ma il salto arriva con Cefis.
«Formidabile, mi trovai da una parte Eugenio Cefis e dall’altra Gianni Agnelli, i due veri padroni d’Italia conflittuali tra di loro con in mezzo Cuccia che faceva la spola tra di loro, Arlecchino tra i due padroni, un capolavoro. Per i primi sei mesi non avevo un ufficio, stavo seduto su una pila di bilanci nel sancta santorum di Montedison, la segreteria. Da lì ho vinto, assieme a Vincenzo Maranghi braccio destro di Cuccia, la guerra contro Sindona per il controllo della Bastogi e ho portato in Borsa una marea di società del Gruppo».
E si accorgono di lei qualche anno dopo, nel 1985.
«Bi Invest».
La scalata Bi Invest ai Bonomi, a una delle famiglie che sembravano intoccabili a Milano, fece epoca.
«Ok, otto anni dopo essermi messo in proprio, sembrava una pazzia affrontare una delle famiglie che sembravano intoccabili a Milano. Ma i poteri forti comunque cambiano sempre, in parallelo con operazioni che trasformano un Paese. Pensi alla nazionalizzazione dell’energia elettrica del 1961. Non ricordo, ma saranno stati 1.500 miliardi di lire, una cifra incredibile per allora, oggi quasi un nonnulla. Purtroppo finirono tutti ai vertici delle società elettriche che ne fecero scempio, mentre agli azionisti, grazie a una campagna terroristica mediatica condotta da Nino Nutrizio della “Notte”, il giornale del pomeriggio milanese, furono dati titoli obbligazionari sulla base dei valori depressi delle azioni. I titoli elettrici erano allora il massimo dell’affidabilità, l’investimento preferito dalle grandi famiglie della borghesia che così di potere ne persero molto».
Bè anche con Bi Invest qualcuno si è impoverito…
«Tutt’altro, il grande rialzo provocato dal rastrellamento di titoli in Borsa produsse forti plusvalenze per chi vendeva i titoli. Però creò panico al sistema, ai padroni del vapore che possedevano solo piccole percentuali delle società quotate, mentre la maggioranza era diffusa sul mercato. Mi ricordo la mamma di Leopoldo Pirelli, Lodovica Zambeletti, personaggio di straordinaria intelligenza (al mattino aveva già letto i principali quotidiani stranieri) che mi diceva quanta apprensione la scalata Bi Invest aveva provocato a suo figlio Leopoldo».
E perché?
«Rischiava di perdere la Pirelli. La scalata Bi Invest fu un esempio, preso dai poteri forti come un fulmine a ciel sereno. Dentro quella scatola c’era il 20% della Fondiaria, una delle maggiori assicurazioni dell’epoca che se la batteva con le Generali e Ina. Ma anche il 17% di Gemina. Le racconto un piccolo segreto. La scalata fu facilitata da Cuccia, perché offeso da Carlo Bonomi che si era rivolto a Efibanca, concorrente di Mediobanca (di cui era anche in Consiglio) per emettere un prestito convertibile: uno sgarbo inaccettabile, il figlio che tradisce il padre, che lo spinge a vendere i titoli sul mercato, il che mi aiutò non poco. Lo stesso fece il dr. Giardina, ad della Finanziaria Milanese che aveva proprio i titoli Bi Invest in garanzie dei debiti di Bonomi, i riporti staccati di allora, che finirono sul mercato. Un secondo regalo del Padreterno per me».
Siamo alla preistoria della finanza attuale. Quella Gemina là?
«Sì quella Gemina al cui tavolo sedevano Fiat, Orlando il re del rame, Arvedi quello dell’acciaio e naturalmente i Bonomi. La Gemina di fatto controllava, tanto per dire, Montedison e Rizzoli. Carlo Bonomi non si accorse dell’operazione attribuendo il rialzo di Bi Invest al rialzo generale del mercato provocato dai grandi acquisti dei fondi di investimento appena introdotti in Italia».