giovedì, Marzo 26, 2020

“Io bergamasco vi racconto il dramma della mia città e perché Bergamo è diventata la Wuhan italiana”

A coloro che sono censiti negli ospedali, che cadono come foglie, vanno infatti aggiunti tutti coloro che in ospedale neanche ci arrivano. Un lavoro da macabri statistici e non da medici.

di Massimiliano Lussana

Forse, la migliore cartina di tornasole per raccontare questa storia è Daniele Belotti. Belotti è un deputato leghista bergamasco, per tanti anni segretario del Carroccio a Bergamo, uno dei capi della Curva atalantina, sempre pronto alla battuta, guascone, simpatico, che non disdegna le rodomontate. Ecco, ieri, a Montecitorio Daniele Belotti piangeva e il suo pianto era sincero, disperato, mentre raccontava che “stiamo perdendo i nostri nonni”, mentre portava la sua testimonianza di bergamasco in trincea per combattere contro il peggiore dei nemici, quello invisibile.

Non c’era, nelle parole di Daniele, nemmeno un po’ di retorica, non c’era nulla del folclore, della polemica, delle squallide risse e di tutto ciò che continuiamo a vedere. Ma c’era tantissima umanità, che è quella di questi giorni a Bergamo. Chiedeva Belotti, insieme al suo collega leghista Christian Invernizzi, se i dati sui morti erano reali. Il ministro per i Rapporti col Parlamento Federico D’Incà ha risposto dicendo che i veri conti si faranno solo alla fine.

Ma il racconto del “caso Bergamo” è un racconto fatto di mille sfaccettature, a partire proprio dal numero dei morti con il Coronavirus che – spiegano il primo cittadino del capoluogo Giorgio Gori e la stragrande maggioranza dei sindaci della provincia – sono sei, sette, otto, dieci volte di più quelli ufficiali.

La macabra contabilità 
A coloro che sono censiti negli ospedali, che cadono come foglie, vanno infatti aggiunti tutti coloro che in ospedale neanche ci arrivano: quelli che muoiono in casa senza ossigeno, quelli che muoiono nelle Rsa, quelli che muoiono nei conventi, nelle varie comunità. Decine e decine di fantasmi che non meritano funerale, ma nemmeno l’ingresso in questa macabra contabilità.

È un lavoro da statistici e non da medici. E funziona così: se io so che per quarant’anni in un Comune sono morte cento persone al mese (con punte in alto di centodieci decessi e in basso di novanta morti), e quest’anno – per la prima volta da quarant’anni – i morti sono novecento, è chiaro che tutti gli ottocento in più sono da Coronavirus. Ho estremizzato i numeri, ma spero di essermi fatto capire.

Ad esempio, nel Comune di Nembro, uno dei più colpiti della provincia, nel primo trimestre del 2019 l’anagrafe ha registrato 44 morti, mentre nel primo trimestre di quest’anno (i dati sono aggiornati all’altroieri) i morti sono già 158, di cui solamente 31 sono ufficialmente per il virus.

I morti sono almeno il quadruplo di quelli ufficiali
Alberto Ceresoli, direttore de “L’eco di Bergamo” che sta seguendo tutta questa storia con dolcezza e umanità, immedesimando sempre più il suo giornale con la città, ha fatto partire un’inchiesta in tutti i Comuni particolarmente interessati e la risposta è sempre la stessa: i morti sono almeno il quadruplo di quelli attuali. Almeno.

Ma come si è arrivati a tutto questo? Com’è stato possibile che Bergamo sia diventata una Wuhan elevata a potenza, con dati drammatici in arrivo anche oggi? E ringrazio anche coloro che ci hanno lavorato, autonomamente da me, ma arrivando in molti casi alle mie stesse conclusioni: Annalisa Camilli di “Internazionale”, Daniele Alberti di “Repubblica tv” e Paolo Berizzi di “Repubblica”. Ecco, in mezzo al dramma, è tornato il piacere di fare informazione vera, il ruolo centrale dei giornalisti, come dimostra ogni giorno anche questo sito, aggiornato in continuazione con un vero servizio pubblico.

Quando si pensava al danno incalcolabile per l’economia
Bergamo, quindi. I buchi, fondamentalmente, sono stati due: la mancata chiusura totale di Nembro e Alzano Lombardo per tutte le cinque giornate in cui le breaking news avvisavano: “Possibile estensione della zona rossa alla bergamasca”. La scelta sarebbe spettata in primo luogo ai Comuni e soprattutto alla Regione, ma stiamo parlando di una delle province che fa più Pil di tutta Europa, più del bacino della Ruhr, e quindi ha prevalso la volontà di non chiudere tutto.

Fabbriche aperte, gente stipata sul trenino dalle Valli al capoluogo, per andare a lavorare, ma anche a divertirsi. Si pensava al “danno incalcolabile” per l’economia, Confindustria chiedeva di tenere tutto aperto, nel frattempo a Milano si lanciava il messaggio che “Milano è aperta”, giravano video di politici bipartisan e catene social che dicevano “Aprire, aprire, aprire. Aprire tutto”.

Fra il 23 febbraio e il decreto annunciato l’8 marzo è stato fatto un danno incalcolabile ed è nato in Lombardia, non a Roma. Poi, ovviamente, non è questo il momento dei processi, di dire che uno è più bravo dell’altro, di dare lezioni. L’ha citato il presidente del Consiglio Giuseppe Conte ieri a Montecitorio: “Del senno di poi son piene le fosse”. E in pochissimi ci ricordavamo che era Alessandro Manzoni raccontando la peste del 1620 a Milano e la sua propagazione per aver ceduto alla volontà popolare di procedere ugualmente con la processione prevista.

E poi, i detonatori. Le processioni della situazione. La partita di San Siro la sera del 19 febbraio: Atalanta-Valencia a porte aperte, 45000 persone, un’intera città che si sposta di cinquanta chilometri e suda, si appassiona, si abbraccia, si ama, litiga tutta insieme (particolare non indifferente: anche gli spagnoli, che si erano mossi in migliaia verso l’Italia, partecipano alla giornata e alla promiscuità di ogni partita di calcio).

Piccolo particolare: la partita di ritorno si giocherà a porte chiuse, decise solo all’ultimo minuto – dopo che il giorno prima i tifosi spagnoli dell’Atletico Madrid sono stati a Liverpool nelle stesse identiche situazioni raccontate poco sopra su Bergamo, con il contagio arrivato devastante in Spagna, proprio da Madrid e da Valencia – e l’allenatore dell’Atalanta Gasperini dirà in un’intervista che non capisce perché non si continui la Champions a porte chiuse per dare sollievo ai malati.

Il grafico dei contagiati a Bergamo è impressionante. Da zero il 26 febbraio, la curva cresce esponenzialmente per tutto il mese, prima lenta, poi inarrestabile. Muoiono medici, infermieri, Oss, operatori del 118, l’ostetrica di Alzano, medici di famiglia. E poi, appunto, l’ospedale di Alzano Lombardo: pare che un paziente infetto abbia fatto, ovviamente a sua insaputa, da untore nei confronti di medici e infermieri al pronto soccorso, senza che gli operatori sanitari fossero dotati di dispositivi adeguati.

L’errore fatale nell’ospedale di Alzano Lombardo
Poi, l’errore fatale: l’ospedale è rimasto aperto e non sono state prese precauzioni, come testimoniato nelle video interviste ai parenti dei morti. Insomma, allo stadio, sul trenino, al lavoro, in coda in gelateria o al pronto soccorso è come se l’immediato hinterland bergamasco si fosse trasformato in un enorme serbatoio di contagio. E poi, il racconto, sempre più uguale a sè stesso, sempre più ineluttabile, sempre più drammatico: “Arrivano persone che telefonano e sorridono. Poi, passano poche ore e muoiono, anche in cinque, sei ore”. Con un altro particolare che ricalca esattamente ciò che era stato detto dall’inizio e sembrava un’esagerazione: “Dovremo scegliere i più giovani quando finiranno i posti”.

E succede esattamente così, come racconta Davide Enia nel più straordinario spettacolo teatrale degli ultimi anni, che ha vinto il premio Ubu e non solo. Si chiama “L’Abisso” e Enia racconta i salvataggi dei migranti in mare, con le parole di un soccorritore di una barca affondata una notte: “Ti trovi davanti una mamma e un bimbo e poco distante tre uomini. Sai che puoi salvare solo gli uni o gli altri. E cosa fai? Tre sono più di due”. Tre sono più di due, una donna e un bambino, e ha detto tutto. “Possiamo salvare uno solo. Uno ha settant’anni e l’altro sessanta”. E sessanta è meno di settanta, e ha detto tutto.

Tiscali news  del 26 marzo 2020

 

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