La Russia pesa il 9% sui ricavi annuali di McDonald’s e il 4% su quelli di Pepsi. Le aziende di food e di bevande sono state le prime ad entrare nel mercato russo e oggi le catene sono quasi interamente gestite da operatori indipendenti e da accordi internazionali complessi che creano problemi alla decisione di bloccare le vendite nel paese.
da del 09/03/2022 09:30
di Rossella Savojardo
A quasi due settimane dall’inizio dell’attacco militare della Russia in Ucraina più di 250 Grandi società hanno deciso di interrompere le loro produzioni nel paese del Cremlino. Tra queste alcune delle multinazionali più note come, Nissan, Apple, Microsoft, Netflix, TikTok, Intel, Dell, Boeing, Daimler, The Walt Disney, Warner Media e Sony Pictures.
L’appello delle aziende a chiudere o sospendere le imprese in Russia è stato visto come un atto di solidarietà nei confronti dell’Ucraina nel conflitto armato in corso.
A far discutere, e non poco, sono stati i silenzi dei grandi colossi del food&berevage come McDonald’s, Coca-Cola, PepsiCo e Yum Brands (Kfc), che hanno dovuto affrontare una crescente pressione sulle piattaforme di social media e da parte dei grandi investitori per fermare le operazioni in Russia. Dopo giorni di insistenze McDonald’s ha annunciato oggi che chiuderà temporaneamente tutti i 847 ristoranti in Russia, compresa la sua iconica sede di Pushkin Square, scaricando così la pressione su altri marchi globali per sospendere le operazioni nel Paese dopo l’invasione da parte di Mosca.
La chiusura dei ristoranti McDonald’s avrà anche un’importanza simbolica in Russia, dove la prima sede ad aprire, nel Centro di Mosca nel 1990, divenne un simbolo del fiorente capitalismo americano con la caduta dell’Unione Sovietica. A causa delle sue dimensioni e della sua portata globale, la catena di hamburger è stata spesso seguita da altri marchi nel corso tempo sulle posizioni prese in merito a problemi sociali o nei percorsi di cambiamento operativo. “Se decidono di fare qualcosa, probabilmente altri la seguiranno”, ha commentato il consulente internazionale in franchising, William Edwards, pensando alla possibilità delle altre società di seguire McDonald’s chiudendo le sedi in Russia per motivi morali.
In effetti, la risposta di un altro colosso del food non si è fatta attendere. Yum Brands, società madre della catena Kfc, ha dichiarato di voler mettere in pausa gli investimenti in Russia, un mercato chiave che ha aiutato il marchio a raggiungere uno sviluppo record l’anno scorso. Ad essere sospese oltre alle attività di ristorazione di Kfc anche quelle di Pizza Hut, per la cui chiusura la multinazionale sta trovando un accordo con il suo master franchisee.
I ristoranti fast-food, le aziende alimentari e di bevande sono stati alcuni dei primi ad entrare nel mercato russo e molti hanno agilmente operato lì per decenni. Anche durante altri periodi di turbolenze e tensioni politiche, le aziende hanno sempre trovato consumatori attratti dal fast food occidentale. Quando McDonald’s ha aperto il suo primo ristorante in Russia circa 30 mila russi si sono messi in fila per assaggiare i suoi hamburger per la prima volta. Pochi anni dopo, Mikhail Gorbaciov, l’ex leader dell’Unione Sovietica, apparve in uno spot pubblicitario per Pizza Hut. A differenza di altre catene, McDonald’s possiede la stragrande maggioranza dei suoi 847 ristoranti in Russia, per un ritorno sui ricavi totali di circa il 9% e il 3% del suo reddito operativo. Anche Yum Brands è molto esposto nel paese, con più di 1.000 Kfc e 50 Pizza Huts tutti di proprietà ma gestiti da franchisee.
Per le altre aziende del settore potrebbe però non essere così semplice seguire le orme dei due colossi del fast food. McDonald’s possiede infatti molte sedi in Russia e ha quindi un accesso più diretto alle operazioni di chiusure, mentre le sedi russe delle altre catene sono quasi interamente gestite da operatori indipendenti e soggette a complessi accordi di franchising internazionali. Ad esempio, il proprietario di Burger King, Restaurant Brands, ha riferito ai microfoni di Reuters che poiché Burger King “è un’attività autonoma di proprietà e gestita da franchisee in Russia”, la Società ha “accordi legali di lunga data che non sono facilmente modificabili nel prossimo futuro”.
Effetto domino anche su Cosa Cola o Pepsi-Co che hanno annunciato lo stop delle vendite in Russia. Quest’ultima, in particolare, è il più grande produttore di alimenti e bevande nel Paese e ha investito centinaia di milioni di dollari in tre impianti di produzione nel paese.
L’anno scorso, la Russia ha rappresentato 3,4 miliardi di dollari, più del 4%, dei 79,4 miliardi di dollari di ricavi del gruppo. Il primo accordo della Società in Russia fu raggiunto nei primi anni del 1970 e ha permesso al Paese di imbottigliare Pepsi diventando il primo prodotto di consumo americano fabbricato e venduto in Unione Sovietica. In cambio, una filiale della società, che già commercializzava vodka sovietica, ottenne i diritti esclusivi per vendere anche champagne, vino e brandy sovietici negli Stati Uniti. Alla fine degli anni 1980, i sovietici, nel rinnovare il loro accordo con PepsiCo, gli fornirono perfino una flotta di navi.
Dietro al grande interrogativo sul perché le catena del food e del beverage faticano a lasciare il paese del Cremlino si nascondono dunque motivi non solo remunerativi ma legati a una lunga storia di trattative e accordi commerciali tra due paesi da sempre politicamente ostili. Lo stop di queste grandi catene in Russia sembra decretare la fine spirituale di ogni speranza che i legami commerciali da soli possano sostenere l’integrazione politica.