“Giorgino” De Stefano è stato arrestato su mandato della Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria nell’ambito dell’indagine “Malefix”, suo soprannome. Diversi collaboratori di giustizia hanno raccontato che prima di essere il fidanzato nell’ombra della cantante Silvia Provvedi, totalmente estranea ai fatti, era un erede della potente cosca calabrese, mandato a Milano per gestire il business della famiglia.
da ATTUALITÀ 24 GIUGNO 2020 15:54
di Salvatore Garzillo
Giovane imprenditore calabrese di successo alla conquista di Milano, con un debole per le belle donne e una attenzione maniacale alla privacy. Questa è la descrizione pubblica di Giorgio De Stefano, il 39enne arrestato dalla polizia nell’ambito dell’inchiesta “Malefix” sulla ‘ndrangheta e fidanzato ufficiale della cantante Silvia Provvedi (la quale tuttavia è completamente estranea ai fatti).
L’immagine che emerge dalle carte dell’indagine è molto diversa.
De Stefano, detto Giorgino, è figlio del patriarca della cosca Paolo Rosario De Stefano, che lo ebbe dalla relazione con la sua amante Carmela Condello Sibio. Risulta quindi fratellastro di Carmine, Giuseppe e Dimitri De Stefano. Molte informazioni sulla sua vita arrivano dal collaboratore di giustizia Enrico De Rosa, il quale ha spiegato che Giorgino è cresciuto tra Milano e Reggio e che alla morte di Paolo De Stefano (ucciso nel 1985 in un agguato a Reggio Calabria), è stato seguito proprio a Milano dal cugino del padre, Paolo Martino, una sorta di tutor.
«Giorgino all’epoca, non era apprezzato da Vincenzino Zappia, storico colonnello della cosca, in quanto ritenuto ancora non sufficientemente maturo per gestire, con la necessaria autorevolezza, le dinamiche di ‘ndrangheta reggina e troppo incline a farsi coinvolgere in compromettenti risse nei locali della movida cittadina», scrive il gip Tommasina Cotroneo.
Lo confermano le dichiarazioni di De Rosa: «Enzo Zappia non lo cacava proprio, nel senso che per Enzo Zappia andava sciolto solamente nell’acido (…) era tutto con quei capelli raffinati, se ne andava locali locali a fare bordello, poi uno gli deve andare a parare il culo, si litiga con le persone, alle 5 le 6 di mattina è ancora in giro, secondo Enzo non aveva una buona condotta».
La “cacciata” da Reggio
Nelle carte delle indagini si legge che per questo motivo la cosca (all’epoca capitanata da Giovanni De Stefano e Vincenzino ZAPPIA) «aveva deciso di rimandare a Milano Giorgino con un duplice obiettivo: nella città lombarda avrebbe potuto amministrare gli interessi economici che in quell’area coltivava la ‘ndrina e, al contempo, sarebbe stato opportunamente alla larga dagli ambienti calabresi, ove ancora non era in grado di muoversi con la dovuta riservatezza».
Ancora De Rosa: «Lo hanno mandato a Milano, lo hanno cacciato per non prenderlo a calci in culo, lo hanno spedito fuori, non è soltanto svolgere, tipo, un’azione di presenza nella famiglia De Stefano negli interessi milanesi è anche perché a Reggio stava facendo danni della Madonna. Nel senso, non dava una buona immagine, soprattutto al cugino Giovanni gli dava fastidio ‘sta cosa, che era troppo… poi si stava sempre, frequentava con ragazzini, tipo, di 25-26 anni che facevano bordello, insomma, che non erano delle persone tranquille, che conducevano una vita riservata, erano troppo appariscenti; ma del resto, lui era troppo appariscente».
Il collezionista di 500 euro
In un interrogatorio del 21 ottobre 2014 De Rosa racconta di aver conosciuto anni prima De Stefano (che a quel tempo portava ancora il cognome della madre) e che gestiva una lavanderia (poi venduta) di fronte all’avvocatura di Stato. Inoltre, dice De Rosa, “aveva una sala giochi gestita da un tale Ughetto che gli faceva, tipo, da sciacquino”. Una sala giochi senza insegna che aveva una vetrina coperta da una pellicola che non consente di guardare all’interno ma permette di vedere all’esterno. “Questo era il punto di riferimento di Giorgino quando era a Reggio – continua il collaboratore – E la gestivano Ughetto e Johnny Sax, Johnny Sax a parte fare questa cosa, spacciava Madma”.
Altra attività di Giorgino era una lavanderia “fallimentare” in cui “non entrava nessuno” e che usava solo “per fare lavorare la mamma, la zia, per tenerla impegnata”. Eppure ha sempre manifestato una grande disponibilità economica. A tal proposito De Rosa racconta un altro episodio illuminante.
«Quando noi ci siamo visti e siamo usciti, non aveva mai meno di 3mila, 3.500 euro in tasca. Mi è rimasto impresso perché c’è stato un periodo, quando lavoravo e stavo bene, che facevo la collezione dei pezzi da 500 euro, e ne avevo diversi tipi dentro la cassaforte. Ma lui aveva mazzetti di 500 euro… non finiva mai. Gli ho detto: “Giorgio ma dove li prendi? Le stampi forse…”. E ne aveva una marea. Pure a Milano. Mi è rimasto impresso il fatto che avesse sempre fogli da 500 euro in tasca. Un conto che uno esce soldi di vario piccolo taglio, ma le carte da 500 euro… magari sarà una stupidaggine ma mi è rimasta impressa».
«Curava gli interessi della cosca in Lombardia e all’estero»
Le accuse per De Stefano sono molto gravi, viene definito «dirigente ed organizzatore dell’articolazione della ‘ndrangheta riferibile al territorio di Archi, che aveva riunificato, intorno alla cosca omonima più gruppi storicamente ivi operanti. Traeva fama criminale e capacità intimidatoria ed assoggettante dall’omonima cosca e dal ruolo verticistico svolto in questa dapprima dal padre Paolo, quindi dai fratelli Giuseppe e Carmine». Proprio di Carmine risulta il collaboratore e portavoce.
Secondo la Dda di Reggio, Giorgino «curava gli interessi economico/imprenditoriali del sodalizio anche in Lombardia e all’estero; provvedeva al mantenimento in carcere e al pagamento delle spese legali per gli associati detenuti; dava assistenza agli associati latitanti; faceva da mediatore per la risoluzione dei contrasti interni alla cosca; curava la riscossione dei proventi estorsivi ed assicurava protezione ai commercianti ed imprenditori contigui alla cosca o costretti al pagamento del “pizzo”; manteneva i rapporti con i rappresentanti delle altre cosche di ‘ndrangheta, con cui condivideva l’aggressione patrimoniale delle attività economiche presenti nel centro cittadino».
La sua presenza nell’organigramma della cosca è riferito dalle dichiarazioni (molto più recenti di quelle di De Rosa e ritenute altrettanto affidabili) di un altro collaboratore di giustizia, Giuseppe Liuzzo, condannato per 416 bis nell’inchiesta “Olimpia 2” e “Araba Fenice”.
Liuzzo riferisce di aver conosciuto De Stefano nel 2003-2004 grazie alla presentazione da parte di Franco Audino, esponente dell’omonima famiglia, il quale lo aveva definito già all’epoca «uno dei referenti di vertice della cosca De Stefano, in quanto in quel periodo molti degli altri esponenti della famiglia erano detenuti».
Gli escamotage per non essere rintracciato
L’ordinanza di “Malefix” ricostruisce una buona parte della vita di De Stefano, è un romanzo di formazione criminale. Il Giorgino recente è molto diverso da quello cacciato da Reggio per le sue intemperanze, risulta più discreto e soprattutto più attento a non lasciare tracce. Per andare in Calabria prendeva il treno da Milano e si fermava a Roma o Napoli e a quel punto finiva il tratto in auto evitando di portare cellulari in modo da non essere rintracciato attraverso le celle telefoniche.
«È un casino, perché per scendere in modo che non lo sanno questi (gli investigatori, ndr) bisogna fare ogni volta un manicomio – dice De Stefano in una telefonata – Dobbiamo arrivare a Roma o a Napoli, lasci i telefoni, prendi la macchina. Ma è sempre stato così, da quando ho 20 anni”.
Non è stato solo grazie a questi accorgimenti che De Stefano ha sempre evitato il carcere, il merito è anche di buone soffiate ricevute negli anni. Agli atti, infatti, risulta che tempo fa avesse appreso “da un’amica ben introdotta in ambienti giudiziari, che in più circostanze il suo nome era comparso in atti di indagine, senza che — tuttavia — la magistratura riuscisse a provare la sua colpevolezza”. I magistrati non erano riusciti a trovare i necessari riscontri. Così, in una intercettazione, De Stefano racconta con fierezza di essere riuscito a uscire indenne dall’accusa di essere un fiancheggiatore del fratello Giuseppe, finito nell’elenco del Ministero dell’Interno dei 30 latitanti più pericolosi d’Italia e preso dalla Squadra mobile il 10 dicembre 2008.